Alcuni mesi fa, nel corso di questa rubrica che negli ultimi anni è andata percorrendo l’intero edificio sacro cristiano, si è parlato dell’altare senza però fare alcun accenno alla tavola eucaristica. Benché il senso di questa frase appena terminata e che voi avete appena letto appaia chiaro a chiunque, in essa risuona invece un grande paradosso, al quale però siamo tanto adusi da non più vederne l’assurdità. Ciò che, infatti, la liturgia cattolica si è sempre sforzata di rendere unitario e indissolubile, cioè la memoria dell’ultima cena di Nostro Signore ed il suo sacrificio in croce per la salvezza degli uomini, si trova di colpo nuovamente scisso nella percezione comune a causa soprattutto della compresenza, nella quasi totalità dei presbiteri, di due manufatti dall’apparenza molto diversa: uno a forma di tavolo o di mensola, al centro del presbiterio o davanti ad esso, e un altro abitualmente più grande, lapideo e collocato quasi come uno sfondo a ciò che accade nel presbiterio.
Nella percezione collettiva il primo equivale alla tavola dell’eucarestia e il secondo è l’altare, il primo dunque è usato per la celebrazione eucaristica (espressione che sempre più spesso si trova a sostituire il termine storico di Messa), mentre il secondo è collegato al vecchio rituale sacrificale. Ecco dunque che una semplice decisione apparentemente innocua presa dal parroco o dal vescovo – la decisione di aggiungere a un unico presbiterio un secondo altare dove celebrare rivolti al popolo – manda involontariamente in fumo un tratto essenziale della liturgia ma ancor più della fede: la coscienza che nell’azione liturgica per eccellenza il sacrificio del Golgota e la memoria della santa cena si compiono simultaneamente, nello stesso luogo e per mezzo delle stesse mani.
Inutile, in casi come questi, fare appello alla catechesi, alla buona comunicazione tra pastori e fedeli, alla necessità, talora, di preservare il monumento storico adeguando però il luogo alla pratica nuova e comune: le parole del miglior catechista saranno presto dimenticate mentre la prova materiale dell’ambiguità, visibile e tangibile nei due “altari” di forma e orientamento diversi, resterà davanti agli occhi di tutti come fosse il simbolo di un’inversione dei significati e di una rottura della continuità del culto.
Ed è difficile non pensarlo quando si conosca la disposizione e la forma delle tavole eucaristiche usate nelle sale di riunione di quasi tutti i gruppi protestanti, dai calvinisti ai presbiteriani, che hanno in comune tra loro l’adozione di tavoli in tutto simili a quelli che sono entrati nelle nostre chiese da circa quarant’anni e l’eliminazione degli altari nella loro forma antica e tradizionale. Una eliminazione che nel loro caso fu dapprima teologica, e che nel nostro fu, forse, piuttosto ideologica ma non di meno devastante per l’impatto che ha avuto sulla fede e sulla sua pratica. Laddove il vecchio altare non fu asportato o danneggiato, i nostri parroci si sono accontentati di lasciarlo quale inutile quinta scenografica alle spalle del nuovo destinato alle celebrazioni, ma questa soluzione, apparentemente più rispettosa della prima, è proprio quella che induce una maggiore sensazione di stridore per l’accostamento di due oggetti di funzione così simile ma così diversi per storia e per forma e che quindi veicolano così diversamente il messaggio di salvezza.
Consapevoli della confusione che la presenza di due altari avrebbe generato nella fede del popolo, o prevedendone addirittura l’effetto, i redattori delle indicazioni espresse dal Concilio ecumenico Vaticano II in materia di spazi per il culto si premurarono infatti di dire che nei presbiteri dev’essere un solo altare e che laddove ve ne sia uno antico esso non vada demolito. La tutela degli altari storici, della loro integrità, collocazione e uso dovrebbe dunque essere un principio indiscutibile per quanti rispettano le indicazioni del Magistero della Chiesa, ma soprattutto per tutti coloro che hanno a cuore l’intima essenza del culto cattolico, che è l’espressione compiuta della fede.
IL TIMONE N. 123 – ANNO XV – Maggio 2013 – pag. 47
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