Cominciamo con una precisazione necessaria: molte persone pensano vhe credere in Dio equivalga a coltivare una fede cieca assimilata nel educazione, perciò ritengono la fede incompatibile con la ricerca scientifica, in quanto uno scienziato non può mai credere ciecamente, bensì deve mantenere un atteggiamento di vaglio critico e sistematico della realtà. Ora, in realtà, nessuno deve credere ciecamente, né gli scienziati né i non scienziati.
Infatti, la Chiesa Cattolica nel Concilio Vaticano I ha sancito in modo definitivo (cioè dogmatico) che ”l’uomo, con il solo lume della ragione naturale può conoscere con certezza l’esistenza di Dio”. Viceversa, chi crede che la fede sia l’unica via per accettare l’esistenza di Dio, incorre nell’eresia chiamata “fideismo”.
Non c’è da sorprendersi dunque che la maggior parte degli scienziati sia costituita da credenti, che non hanno trovato alcuna incompatibilità tra la scienza e la fede. Mi limito a citare solo alcuni: Pascal, Mendel, Pasteur, Ampère, Galvani, Volta, Faraday, Fermi, Eccles.
Per ragioni di spazio mi soffermo solo sugli scienziati che si sono interessati attivamente alle prove raziohali dell’esistenza di Dio e che l’hanno guadagnata con assoluta certezza.
Galileo Galilei, il fondatore della scienza moderna, fu un grande credente che, non solo accettava razionalmente l’esistenza di Dio, ma professava anche la religione rivelata, quella cristiana proclamata dalla Chiesa Cattolica. Nella lettera a Madama Cristina di Lorena, Galileo riportò una frase del suo amico, il cardinal Baronio (che esprimeva un concetto già ben chiaro secoli prima, per es., a S. Agostino): “La Scrittura ci insegna come si va in cielo e non come è fatto il cielo”, cioè la Scrittura non è un trattato di astronomia. Ciò vuoi dire che, nella nota polemica con alcuni gesuiti e con il cardinal Bellarmino, Galileo sosteneva una posizione teologicamente corretta circa l’interpretazione della Bibbia, mentre aveva torto dal punto di vista scientifico, per varie ragioni. Ad esempio, Bellarmino chiedeva a Galileo di considerare la teoria copernicana come una conveniente ipotesi matematica e non come una verità inconfutabilmente dimostrata. Il torto scientifico di Galileo peggiorò quando si intestardì a considerare le maree come prova della rotazione assoluta della terra. Anche i suoi oppositori avevano ben capito che ciò era errato, e sarà Nevvton, più tardi, a dimostrare che le maree sono dovute per due terzi all’attrazione gravitazionale lunare e per un terzo a quella solare.
Anche Newton e Leibniz, che scoprirono e svilupparono il calcolo infinitesimale (contemporaneamente ed indipendentemente l’uno dall’altro), furono grandi assertori della conoscenza razionale dell’ esistenza di Dio. Seguendo Galileo, parlavano della bellezza delle leggi fisiche poste da Dio nel creato, spiegando che quest’ultimo è scritto con un linguaggio geometrico e matematico. Leibniz arrivò persino a sostenere che questo è il migliore dei mondi possibili, anticipando, in un certo senso, il principio antropico, formulato nel Novecento, che enfatizza la mirabile sintonia delle costanti fisiche fondamentali che consentono lo sviluppo della vita (dr. Il Timone n. 16, pp. 40-41).
Ricordando che non mi soffermo né elenco tutti gli scienziati credenti, ribadisco che la maggioranza è stata ed è di credenti. Semmai, una discreta minoranza è di panteisti (il panteismo sostiene che Dio esiste e che coincide con il mondo). Tra gli atei, a mia conoscenza, l’unico grande scienziato è stato Boltzmann, che morì suicida come il suo allievo Ehrenfest. Intendiamoci: parlo di atei che abbiano pensato, dedicandovi un po’ di tempo, all’esistenza di Dio. E trascurare questo tema è professionalmente impossibile per chi si occupa di astrofisica o di particelle elementari, mentre è possibile per chi si occupa di fisica dei solidi o dei liquidi o dei gas, specie se da un punto di vista tecnico e applicativo.
È infine interessante riportare la prova dell’esistenza di Dio di Lord Kelvin e di Jeans, due grandi scienziati dell’Ottocento. A Kelvin si devono uno degli enunciati del secondo principio della termodinamica, l’uso della scala termometrica assoluta (a partire cioè dallo zero assoluto di temperatura) che tuttora usiamo e la risoluzione di molti problemi di elettromagnetismo. A Jeans si deve la scoperta della massa critica di condensazione di una nuvola (di forma sferica) di gas (l’idrogeno primordiale dell’universo), verificata negli ammassi globulari, ma ancora più famoso è il suo studio iniziale dell’irraggiamento del corpo nero, che determinò la prima crisi della fisica classica (spettro di Rayleigh-Jeans, noto come catastrofe ultravioletta).
Ebbene, il ragionamento di Kelvin e Jeans è molto semplice. Un sistema isolato tende ad evolvere verso stati più probabili.
Termodinamicamente ciò significa che le differenze di temperatura fra un corpo ed un altro tendono a livellarsi col passare del tempo. Ora, poiché nell’universo si trovano dei corpi I caldissimi (le stelle), altri , tiepidi (i pianeti), ma anche i freddissimi spazi interstellari, ciò significa che l’universo non può essere esistito da tempo infinito, altrimenti il livellamento delle temperature sarebbe già avvenuto: dunque l’universo esiste da un tempo finito, vale a dire ha avuto un inizio. Ma allora, siccome l’universo esiste, siccome non esiste da sempre, bensì ha avuto un inizio, vuoi dire che è stato creato da una Causa di natura radicalmente diversa da quella del mondo.
Questa considerazione, ripresa anche da Pio XII, è tuttora valida e, a mio avviso, è esente da qualsiasi critica, poiché il secondo principio della termodinamica, su cui si poggia, ha una validità ben più forte di quella di qualunque altra legge fisica, e prescinde dalla conoscenza dettagliata delle altre leggi. In altri termini, la necessità della creazione dell’universo fisico resta valida anche se non conosciamo i dettagli sull’inizio del grande scoppio primordiale (big bang).