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15.12.2024

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Il dopo-concilio. Dalla crisi alla speranza
31 Gennaio 2014

Il dopo-concilio. Dalla crisi alla speranza

 

 

 
Un primo decennio drammatico getta il mondo cattolico nella bufera.
Poi comincia a venire letto per quello che è: una preparazione alla missione. E il Vaticano II diventa il programma di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
 
 
«La sentenza definitiva sul valore del Concilio Vaticano II – scriveva il cardinal Joseph Raztinger ripreso dal celebre storico della Chiesa Hubert Jedin (1900-1980) – dipende dalla misura in cui gli uomini vivono in se stessi il dramma della separazione del grano dalla pula; dipende dagli uomini che lo pongono in vita se alla fine esso sarà indicato tra i punti luminosi della storia della Chiesa».
Può sembrare un’ovvietà legare la realizzazione o meno di un importante progetto alla santità degli uomini che lo devono realizzare.
Ma chi vive nella Chiesa non può ragionare diversamente se essa è – e lo è – un dialogo nel tempo fra la Provvidenza divina e la libertà degli uomini.
Con questo dossier si è cercato di spiegare cosa il Concilio Vaticano II è stato storicamente e di fornire un criterio interpretativo di lettura di tutti i documenti conciliari. Adesso si tratta di vedere cosa è accaduto negli anni successivi alla sua chiusura, dopo il 1965.
A una prima ricostruzione, il Vaticano II sembra aver provocato un vero e proprio cataclisma all’interno della Chiesa. E questa è stata la percezione dei molti che hanno accompagnato, anche da protagonisti, la sua applicazione nel decennio 1965-1975, aggravata dal clima di profonda contestazione a tutti i livelli penetrata nella vita pubblica in seguito alla rivoluzione culturale esplosa in quegli anni, il cosiddetto Sessantotto. Eppure la vita della Chiesa non tollera una lettura della sua storia attraverso criteri che prescindono da cosa la Chiesa è. Questa è stata la grande lezione del già ricordato Hubert Jedin: la Chiesa non è una società soltanto umana e la sua storia non può essere affrontata solo con criteri storico-critici.
Infatti, la lettura del Vaticano II come luogo della contrapposizione fra vescovi conservatori o tradizionalisti e vescovi progressisti non regge. Tutti i suoi documenti sono stati firmati dalla grande maggioranza dei padri conciliari e l’applicazione dei documenti nel post-Concilio ha dato esiti molto diversi a seconda di chi e come li ha applicati. In Olanda e in Polonia, per esempio, è stato applicato lo stesso Concilio? Oppure, i nuovi movimenti laicali sorti negli anni successivi al Concilio anche grazie agli impulsi missionari (e laicali) dei suoi documenti sono frutto del Vaticano II o no? E se sì, perché sono qualificati dai più come movimenti conservatori o integralisti?
Soltanto in questi ultimi anni, a quaranta dalla conclusione dell’assise, si comincia a leggere il Concilio in modo diverso da una lettura ideologica, tutta interna allo schema conservatori-progressisti importato dal mondo secolare, una lettura che ogni tanto aiuta a capire, ma che più frequentemente disorienta e produce fatali fraintendimenti. Soltanto da poco si comincia a riflettere sul fatto che cercare di “aggiornare” la trasmissione della fede di sempre per favorirne la comprensione agli uomini del proprio tempo non aveva nulla, in sé, di progressista e che anzi era il tipico modo tradizionale di trasmissione della Fede. Peraltro sembra accertata l’esistenza di due fronti in seno ai lavori conciliari, ma è molto più complesso esaminare e comprendere le differenze all’interno dei due grandi gruppi di vescovi, indicativamente divisi fra una maggioranza favorevole alle riforme e una minoranza perplessa o contraria (che peraltro le ha votate). È anche recente il far notare la differenza sostanziale fra quello che Giuseppe Alberigo chiama l’«evento» del Concilio, il suo “spirito” e invece i documenti prodotti dai lavori conciliari, come ha spiegato bene il vescovo Agostino Marchetto anche nell’intervista pubblicata in questo dossier.
Tuttavia, queste cose era molto difficile percepirle negli anni dopo la fine del Concilio. Come ha ricordato il filosofo Emanuele Samek Lodovici (1942-1981), il mondo cattolico aveva tutti i titoli per contestare in radice la società liberale e borghese che entrava in crisi in quell’epoca. Ne aveva denunciato i limiti e se l’aveva soccorsa era per salvaguardare la società da un male maggiore, il socialismo, peraltro sorto dallo stesso processo rivoluzionario. Ma invece di portare la sfida al cuore del sistema liberale, il mondo cattolico inventava la sua crisi, rinunciava alla sua storia, si arrendeva senza neppure combattere. Allora il secolarismo penetrava nel cuore e nella mente dei cattolici, dei giovani soprattutto, e cominciava a sgretolare (in un certo senso continuava, ma con una grande accelerazione) la società fino nelle sue fondamenta. Il principio di autorità sarebbe stato rifiutato e disprezzato nel giro di pochi anni e tale disprezzo sarebbe entrato nel costume della società e rimase anche dopo la sbornia ideologica di quell’epoca. Le ideologie penetrarono anche dentro il corpo ecclesiale e divenne difficile resistere alla enorme pressione culturale a cui furono sottoposti quelli che volevano rimanere fedeli all’insegnamento della Chiesa. Il mondo cattolico entrò in crisi perché andarono in crisi i “fondamentali”, la preghiera e la contemplazione, l’importanza della metafisica e della filosofia dell’essere, il desiderio di costruire un mondo migliore, cioè una civiltà cristiana frutto della dottrina sociale della Chiesa.
Così la crisi esplose. Il Concilio divenne il pretesto per l’«autodemolizione» della Chiesa (Paolo VI, 1968) e il «fumo di Satana» (Paolo VI, 1972) penetrò nel sacro recinto.
I primi dieci anni furono terribili. Decine di migliaia fra sacerdoti, religiose e religiosi abbandonarono la stato sacerdotale o monastico, follie liturgiche vennero a “disturbare” la presenza alle celebrazioni di molti fedeli, nel nord Europa si arrivò, non soltanto in Olanda, a situazioni di vero e proprio scisma di fatto. E lo scisma vero venne invece dall’altra parte, con i seguaci dell’arcivescovo francese mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), che cominciando a rifiutare gli abusi finirono per mettere in discussione lo stesso Concilio, o almeno suoi documenti rilevanti, per arrivare poi allo scisma alcuni anni più tardi, nel 1988. La tentazione di incolpare il Concilio del malessere che era penetrato nella Chiesa era reale e soprattutto in alcuni paesi sembrava giustificarsi di fronte alla follia che sembrava essersi impadronita di molti cattolici.
Tuttavia la Chiesa continuava a esistere. Papa Paolo VI continuava a denunciare gli abusi commessi in nome del Vaticano II e soprattutto con l’enciclica Humanae vitae del 1968 gridava al mondo l’indisponibilità della sposa di Cristo a qualsiasi compromesso su materie fondamentali, come la trasmissione della vita. Per chi usava il Vaticano II come lo strumento per provocare nella Chiesa un terremoto rivoluzionario, Paolo VI diveniva l’affossatore delle riforme conciliari e della stagione che sembrava promettere l’utopia di una nuova Chiesa, “moderna” ma non più fedele al mandato di Cristo.
E proprio mentre cominciava a spegnersi, molto lentamente, la fiamma rivoluzionaria del dopo-Concilio, la Chiesa cattolica ribadiva la sua giovinezza («ad Deum qui laetificat juventutem meam») riaffermando la sua vocazione missionaria con un documento del 1975, l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, nella quale Paolo VI denunciava nella rottura del rapporto tra fede e cultura il dramma dell’epoca moderna e indicava una strada per superarlo. Questa strada passava attraverso il Concilio Vaticano II e i suoi documenti letti in una prospettiva missionaria. Non per sminuirne l’evento, che rimane il più importante nella storia della Chiesa nel XX secolo, ma per impedire che venga usato come fosse l’«unico» Concilio della storia ecclesiale, e non il ventunesimo di una storia bimillenaria. Così collocato, il Concilio diventerà il programma ispiratore, il faro di riferimento dell’opera del pontefice che porterà la Chiesa nel terzo millennio.

 

 
 

Dossier: Quarant'anni dopo. Il Concilio Ecumenico Vaticano II 
 
IL TIMONE – N. 48 – ANNO VII – Dicembre 2005 – pag. 44 – 45
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