La scelta centralista del 1861 penalizza l’Italia dei “mille campanili”. Per tanti popoli così diversi era necessario un sistema politico federalista. Che sta lentamente e faticosamente realizzandosi, 150 anni dopo
Dopo l’unificazione
Se è vero che per spegnere la rivolta armata del Sud occorrerà una sanguinosa repressione militare, va anche detto che la reazione contro il disagio indotto dal nuovo assetto politico-amministrativo non sarà poi altrettanto radicale. In effetti, il nuovo regime, grazie all’ingente capitale di dedizione pubblica e di oneste abitudini, lascito della eticità degli ordinamenti dei cessati regimi e del cattolicesimo diffuso – si pensi, per esempio, al personale della scuola –, tutto sommato funzionerà. Il malessere sociale troverà, a sua volta, una valvola di sfogo nell’emigrazione, nonché nelle avventure coloniali che l’“Italietta” immediatamente intraprende, mentre le energie del cattolicesimo italiano – in pendenza di non expedit – s’incanaleranno piuttosto a sollievo delle classi umili.
La questione istituzionale, esasperata dalla politica nazionalizzatrice e autoritaria del fascismo, non si esaurirà.
Nonostante il dettato autonomistico della Costituzione del 1948, lo statuto “speciale” assegnato alle province di Bolzano, Trento e Aosta, e la poco “economica” e ridondante istituzione delle Regioni nel 1970, la struttura centralizzata continuerà a caratterizzare lo Stato italiano anche nel dopoguerra repubblicano.
Dall’autonomismo alla Lega
Tuttavia, a partire dagli anni 1960, grazie allo spazio che nella letteratura politica conquistano temi come il principio di autodeterminazione dei popoli, la decolonizzazione, la riscoperta delle culture premoderne, ma anche a causa dei primi inceppamenti della macchina statale, del sempre più forte divario fra Nord e Sud del Paese e della cattiva gestione dei sussidi pubblici al Mezzogiorno, si manifesta più vivo il problema del centralismo statale.
Nelle aree allogene – tirolesi del Sud, valdostani non di lingua italiana, ladini delle montagne trentine, walser delle Alpi Centrali, occitani delle Alpi Marittime – nascono gruppi e movimenti che rivendicano soprattutto l’autonomia linguistica e la tutela delle memorie locali.
Questo risveglio di gruppi ristretti di autonomisti propizierà – il giovane Umberto Bossi sarà influenzato da uno dei fondatori della Union Valdôtaine Bruno Salvadori (1942-1980) – più tardi la presa di coscienza da parte di popolazioni più ampie: i veneti, dal lungo passato di alta cultura e di pieno autogoverno politico; i liguri, che mai hanno digerito l’unione coatta al Piemonte sabaudo nel 1815; e i lombardi, anch’essi privati delle antiche tradizioni di autogoverno.
La questione istituzionale emergerà prepotentemente negli anni 1980, allorché non al Sud, dove peraltro è più forte e sentito il peso del federalismo negato nel 1861, bensì al Nord. Qui nasce un forte movimento autonomistico dal carattere prettamente politico e dalla intensa verve rivendicativa: la Liga Veneta (1980) e, pressoché in contemporanea, la Lega Lombarda (1982), poi Lega Nord (1996).
Con questi movimenti, le istanze federalistiche usciranno dalla sfera del dibattito culturale per entrare prepotentemente nell’agone politico in quanto tali e non più come sotto-problemi all’interno delle agende dei vecchi partiti. La mancata attuazione del federalismo è assurta così ai nostri giorni a problema politico di primo piano.
Tuttavia, proprio per il livellamento che vi è stato un secolo e mezzo fa, occorre essere consapevoli che, oggi, un federalismo autentico, cioè “dal basso” – attuato cioè da soggetti sovrani già esistenti, i quali cedono una parte delle loro prerogative a un nuovo soggetto collettivo: sul tema è magistrale la riflessione dello svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970) –, in Italia è improponibile: i soggetti di cui sopra, nonostante qualche variopinto legittimismo, non ci sono più, perché soppressi ed estinti da un secolo e mezzo. Quello che pare invece attuabile, anzi, urgente è una serie d’interventi mirati al riequilibrio e al riconoscimento delle differenze fra aree del Paese attraverso atti di decentramento, più o meno ampi, delle prerogative dello Stato, che non dimentichi, tuttavia, che le regioni italiane sono limitate – un fiume di media dimensione come il Po attraversa o tocca ben quattro regioni – e “ritagliate” in maniera discutibile: per molte di loro, i confini, già discutibili in partenza, non rispecchiano oggi più i nessi e i processi socioeconomici reali del territorio.
Dossier: UNITÀ e RISORGIMENTO: 150 anni, tre ferite
IL TIMONE N. 99 – ANNO XIII – Gennaio 2011 – pag. 44 – 45
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl