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3.12.2024

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Il federalismo negato
31 Gennaio 2014

Il federalismo negato

 

 

 

La scelta centralista del 1861 penalizza l’Italia dei “mille campanili”. Per tanti popoli così diversi era necessario un sistema politico federalista. Che sta lentamente e faticosamente realizzandosi, 150 anni dopo

Subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, si porrà il problema dell’assetto da dare al nuovo Stato nazionale unitario. L’alternativa era se privilegiare il controllo delle varie componenti aggregate in maniera coattiva fra il 1859 e il 1861 al Regno sardo, oppure se mantenere in certa misura le autonomie preesistenti. A favore dell’assetto federalistico militava l’antica natura policentrica della statualità italiana, ma anche tutta una letteratura politica di vario orientamento, di cui sono esempio i progetti unitari di Gianfrancesco Galeani Napione (1748-1830) e, intorno al 1848, Vincenzo Gioberti (1801-1852) e altri filosofi cattolici della politica come Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862) e Antonio Rosmini (1797-1855), ma anche i vari federalismi “laici” alla Carlo Cattaneo (1801-1869). Né poteva essere ignorata, a favore, la plurisecolare esperienza di libertà elvetica e britannica, né, tanto meno, quanto realizzato solo pochi decenni prima negli Stati Uniti d’America.
La scelta del modello “francese”
Come noto, allarmato dalla guerriglia legittimistica e anti-unitaria esplosa nel Mezzogiorno dopo la conquista militare garibaldina, il governo di Bettino Ricasoli (1809-1880), succeduto a Camillo di Cavour (1810-1861), sceglierà la via opposta e imboccherà la strada “francese” – già sconsigliata vivamente da Rosmini nel 1848 –, basata sull’accentramento e sui prefetti di origine napoleonica. Toccherà così alle terre italiche, indipendenti e autogovernatesi per secoli, d’indossare il medesimo “abito politico”, un abito monocolore e scomodo, che strideva con il policromo mosaico istituzionale che l’Italia presentava prima del 1861. L’Italia nasce allora non come frutto di una unione negoziale e consensuale, bensì come prodotto di una guerra di conquista francoanglo- piemontese, che in soli due anni aveva portato all’estromissione dell’Austria dalla Penisola – salvo il Veneto – e alla totale incorporazione nel Regno sardo – nonostante i “plebisciti” di facciata del 1860 – dei principati italiani sconfitti. A partire dal 1861, dalla Valtellina a Lampedusa, vi saranno così una sola dinastia, un solo re – che continuerà a enumerarsi alla piemontese –, un solo Statuto, un identico corpo di leggi, una so la riserva aurea, una sola moneta, un solo mercato, una sola scuola – quella di Stato –, un unico corpo di giudici, un solo esercito e una sola marina a leva obbligatoria. Il governo liberale – espressione di un Parlamento eletto da 170mila votanti su 26 milioni d’italiani – guiderà il Paese in maniera rigida e capillare attraverso i prefetti e i sindaci non eletti ma nominati dal Consiglio dei Ministri.
I capitali di esperienza politica delle classi dirigenti preunitarie saranno dispersi. Antiche capitali verranno declassate a semplici municipi e dovranno riconvertirsi: Genova, in porto del Nord Italia; Milano, in opificio; Firenze, e poi, dopo il 1866, Venezia, in industria del turismo: su Napoli e su Palermo si stenderanno sempre più fitti i tentacoli delle varie “piovre” criminali. Pochi anni dopo, papa Pio IX (1846-1878), già idolo dei liberali nel 1848, finirà prigioniero in Vaticano.
Le politiche accentratrici, secolaristiche e dirigistiche della nuova classe liberale creano in breve sensibili e crescenti squilibri, che soprattutto nel Mezzogiorno rendono difficile la vita dei ceti umili e indeboliscono il tessuto morale della società. Oltre alle ben note “questioni” – sotto la cui voce sono state riassunte dagli storici le patologie che hanno afflitto e, in parte, ancora affliggono, l’Italia postunitaria – cattolica e meridionale, si apre allora anche una forse meno nota “questione istituzionale” o “settentrionale”.

Dopo l’unificazione
Se è vero che per spegnere la rivolta armata del Sud occorrerà una sanguinosa repressione militare, va anche detto che la reazione contro il disagio indotto dal nuovo assetto politico-amministrativo non sarà poi altrettanto radicale. In effetti, il nuovo regime, grazie all’ingente capitale di dedizione pubblica e di oneste abitudini, lascito della eticità degli ordinamenti dei cessati regimi e del cattolicesimo diffuso – si pensi, per esempio, al personale della scuola –, tutto sommato funzionerà. Il malessere sociale troverà, a sua volta, una valvola di sfogo nell’emigrazione, nonché nelle avventure coloniali che l’“Italietta” immediatamente intraprende, mentre le energie del cattolicesimo italiano – in pendenza di non expedit – s’incanaleranno piuttosto a sollievo delle classi umili.
La questione istituzionale, esasperata dalla politica nazionalizzatrice e autoritaria del fascismo, non si esaurirà.
Nonostante il dettato autonomistico della Costituzione del 1948, lo statuto “speciale” assegnato alle province di Bolzano, Trento e Aosta, e la poco “economica” e ridondante istituzione delle Regioni nel 1970, la struttura centralizzata continuerà a caratterizzare lo Stato italiano anche nel dopoguerra repubblicano.

Dall’autonomismo alla Lega
Tuttavia, a partire dagli anni 1960, grazie allo spazio che nella letteratura politica conquistano temi come il principio di autodeterminazione dei popoli, la decolonizzazione, la riscoperta delle culture premoderne, ma anche a causa dei primi inceppamenti della macchina statale, del sempre più forte divario fra Nord e Sud del Paese e della cattiva gestione dei sussidi pubblici al Mezzogiorno, si manifesta più vivo il problema del centralismo statale.
Nelle aree allogene – tirolesi del Sud, valdostani non di lingua italiana, ladini delle montagne trentine, walser delle Alpi Centrali, occitani delle Alpi Marittime – nascono gruppi e movimenti che rivendicano soprattutto l’autonomia linguistica e la tutela delle memorie locali.
Questo risveglio di gruppi ristretti di autonomisti propizierà – il giovane Umberto Bossi sarà influenzato da uno dei fondatori della Union Valdôtaine Bruno Salvadori (1942-1980) – più tardi la presa di coscienza da parte di popolazioni più ampie: i veneti, dal lungo passato di alta cultura e di pieno autogoverno politico; i liguri, che mai hanno digerito l’unione coatta al Piemonte sabaudo nel 1815; e i lombardi, anch’essi privati delle antiche tradizioni di autogoverno.
La questione istituzionale emergerà prepotentemente negli anni 1980, allorché non al Sud, dove peraltro è più forte e sentito il peso del federalismo negato nel 1861, bensì al Nord. Qui nasce un forte movimento autonomistico dal carattere prettamente politico e dalla intensa verve rivendicativa: la Liga Veneta (1980) e, pressoché in contemporanea, la Lega Lombarda (1982), poi Lega Nord (1996).
Con questi movimenti, le istanze federalistiche usciranno dalla sfera del dibattito culturale per entrare prepotentemente nell’agone politico in quanto tali e non più come sotto-problemi all’interno delle agende dei vecchi partiti. La mancata attuazione del federalismo è assurta così ai nostri giorni a problema politico di primo piano.
Tuttavia, proprio per il livellamento che vi è stato un secolo e mezzo fa, occorre essere consapevoli che, oggi, un federalismo autentico, cioè “dal basso” – attuato cioè da soggetti sovrani già esistenti, i quali cedono una parte delle loro prerogative a un nuovo soggetto collettivo: sul tema è magistrale la riflessione dello svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970) –, in Italia è improponibile: i soggetti di cui sopra, nonostante qualche variopinto legittimismo, non ci sono più, perché soppressi ed estinti da un secolo e mezzo. Quello che pare invece attuabile, anzi, urgente è una serie d’interventi mirati al riequilibrio e al riconoscimento delle differenze fra aree del Paese attraverso atti di decentramento, più o meno ampi, delle prerogative dello Stato, che non dimentichi, tuttavia, che le regioni italiane sono limitate – un fiume di media dimensione come il Po attraversa o tocca ben quattro regioni – e “ritagliate” in maniera discutibile: per molte di loro, i confini, già discutibili in partenza, non rispecchiano oggi più i nessi e i processi socioeconomici reali del territorio.

 

 

 

 

Dossier: UNITÀ e RISORGIMENTO: 150 anni, tre ferite

 

IL TIMONE N. 99 – ANNO XIII – Gennaio 2011 – pag. 44 – 45

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