È lo scritto di Platone che ci consegna la più ampia e profonda speculazione elaborata dal grande ateniese in merito all’anima e alla sua immortalità. Somiglianze e differenze col cristianesimo
Fin dalle origini della civiltà occidentale, il tema dell’esistenza dell’anima e del suo destino ha profondamente interessato gli uomini. Già nei poemi omerici è possibile rintracciare indicazioni significative circa il modo di considerare tale argomento, ma è con l’Orfismo, un complesso movimento religioso che si manifestò in Grecia a partire dal VI secolo, che la questione della psyché (anima) assunse una notevole importanza; non del tutto smarrita dai filosofi presocratici, essa fece registrare il suo acme con Socrate, la cui dottrina dell’anima rimane un caposaldo dell’intera storia della filosofia. A raccogliere in modo tanto originale quanto geniale l’eredità socratica per quanto concerne la questione dell’anima fu Platone, uno dei maggiori filosofi di tutti i tempi, nei cui celeberrimi Dialoghi trovano spazio numerose rilevantissime riflessioni su tale tema.
Molto probabilmente, lo scritto platonico che ci consegna la più ampia e profonda speculazione elaborata dal grande Ateniese in merito all’anima è il Fedone, la cui seppur succinta analisi ci permetterà di cogliere la profondità e la bellezza di una delle più famose dottrine platoniche.
Il dialogo si apre con un breve preludio, nel quale viene narrato l’incontro, avvenuto nell’antica città peloponnesiaca di Fliunte, fra Echecrate, filosofo pitagorico, e Fedone, scolaro prediletto di Socrate. Il primo chiede all’altro di narrargli in quale modo Socrate, recluso in carcere, trascorse l’ultimo giorno della sua vita prima di bere, come stabilito dalla condanna comminatagli dal tribunale di Atene, la cicuta che lo avrebbe condotto alla morte. Fedone dà inizio al suo racconto, dicendo che quel giorno il Maestro appariva stranamente sereno e felice, pronto a morire tranquillamente, convinto che la morte fosse addirittura desiderabile: egli non intendeva di certo giustificare e tanto meno raccomandare il suicidio, forte della convinzione che la nostra vita appartiene agli dèi, ma voleva far capire ai discepoli, che erano andati a trovarlo e a consolarlo, che la morte è un evento positivo, in quanto libera definitivamente l’anima dalla prigionia del corpo. Ripetutamente nei suoi scritti Platone ha insistito su questo punto: la dimensione materiale dell’uomo è ingannevole e non costituisce la sua vera realtà, perché quest’ultima è rappresentata dal mondo delle Idee, un mondo metafisico, eterno, immutabile, perfetto, posto oltre ciò che è fisicamente visibile. Il filosofo che conosce questo universo di assoluta perfezione e verità trascorre tutta la vita cercando di avvicinarsi a esso, allenandosi continuamente a superare i limiti connessi con la condizione umana, il primo dei quali è rappresentato proprio dalla corporeità, origine delle passioni e degli errori che ostacolano costantemente gli uomini. Per il filosofo, tutto ciò si concretizza nel riconoscimento dell’assoluto primato dell’anima sul corpo e nella conseguente necessità di dedicare la massima attenzione alla cura di essa. Secondo Socrate, l’uomo si identifica con la sua anima: Platone fa propria questa convinzione e indica nella liberazione dal corpo la via maestra per raggiungere la sapienza qua sulla terra e meritare così il premio eterno che riceveremo alla fine della nostra vita terrena. La morte, dunque, lungi dal recare dolore, è attesa dall’autentico sapiente come un passaggio decisivo verso quella luminosa verità da lui tanto agognata per tutta la vita e per contemplare la quale si era dedicato alla filosofia che, non a caso, nella sua forma più alta, è vero e proprio esercizio di morte.
Giunto a questo punto, Platone si rende perfettamente conto che tutto ciò che Socrate ha sin qui asserito è sostenibile soltanto se si ammette che l’anima è immortale. Siamo così giunti al cuore del Fedone: Platone addurrà varie prove per dimostrare che l’anima sopravvive al corpo. Si tratta di argomenti di non immediata e facile comprensibilità: volendo sintetizzarne e coglierne il significato profondo, è possibile sostenere che a giudizio di Platone l’anima dell’uomo è destinata all’immortalità perché è, in certo modo, affine alle Idee, cioè a quelle realtà che, come abbiamo detto poco sopra, sono eterne, incorporee, immutabili, incorruttibili, perfette.
La certezza dell’immortalità dell’anima determina due ordini di conseguenze – uno di carattere etico e uno di tipo escatologico – che si intrecciano e si richiamano a vicenda. Il Fedone contiene un forte orientamento morale ed è stato per questo considerato un “dialogo a carattere eminentemente esortativo”. L’appello etico presente in esso consiste nel forte richiamo con il quale Socrate raccomanda ai discepoli la cura delle loro anime: sollevandosi alla vera conoscenza, disprezzando i gradi più bassi della sensibilità e della materialità e non facendosi attrarre dai falsi valori, essi potranno realizzare appieno la loro umanità, di cui l’anima è il centro e il fondamento. Praticando la virtù, che è figlia della sapienza, l’uomo – e giungiamo così alla questione escatologica – otterrà la beatitudine eterna e sfuggirà ai castighi che attendono gli ingiusti nell’oltretomba.
Non è possibile in questa sede rendere conto delle ampie riflessioni svolte da Platone sull’aldilà, sulla punizione delle anime degli uomini non virtuosi, sulla reincarnazione di alcune di esse, sull’immediata salvezza di altre che, invece, andranno subito a vivere beatamente accanto agli dèi. Certo è che nel Fedone viene affermata l’esistenza dell’anima, la sua immortalità e la necessità che l’uomo si prenda cura di essa per ottenere la felicità eterna.
Come è facile notare, si tratta di tematiche che occupano un posto centrale anche nel Cristianesimo e che molti filosofi e teologi cristiani affronteranno con grande impegno. Riguardo al legame che unirebbe le dottrine platoniche riguardanti l’anima a quelle cristiane si è molto discusso. A questo riguardo, A. E. Taylor, un grande studioso di Platone, ha scritto: «La concezione che viene espressa in queste pagine è manifestamente il corrispondente della “via mistica” del Cristianesimo; l’idea che sta alla base di entrambe le concezioni è che vi è per l’uomo un supremo bene il quale, per la sua stessa natura, non può venir goduto “in questa vita”. La miglior vita è pertanto quella diretta a prepararci alla piena fruizione di questo eterno bene, al di là dei limiti della nostra esistenza temporale. In entrambi i casi significa che la vita più alta per l’uomo, mentre è sulla terra, è “vivere morendo”, un processo di liberazione dal vecchio uomo con le sue affezioni e i suoi impulsi, per diventare una “nuova creatura”».
Non sono poche, dunque, le analogie riscontrabili tra platonismo e Cristianesimo, ed è noto che molti intellettuali cristiani dei primi secoli nutrirono una grande ammirazione per Platone e si sentirono debitori nei suoi confronti. Tuttavia, sembra opportuno ricordare anche le differenze, a volte veramente radicali, che intercorrono fra platonismo e Cristianesimo, anche per ciò che concerne la concezione dell’anima. Le ha sottolineate con chiarezza Giovanni Reale, il maggiore studioso italiano vivente di Platone, che, in particolare, insiste sul fatto che se per Platone la salvezza dell’anima è frutto della sapienza appannaggio di pochi eletti, per il Vangelo essa è destinata a tutti ed è opera di Dio Padre che, in virtù della morte e resurrezione del suo Figlio Gesù Cristo, permette all’uomo di entrare in Paradiso.
Inoltre, per il Cristianesimo l’uomo non coincide con la sola anima, bensì è un’unione profonda di anima e corpo e anche quest’ultimo è positivo, non foss’altro perché creato da Dio.
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«Tutto ciò che di male s’è fatto, s’è fatto contro il Verbo, tutto ciò che s’è fatto di bene, s’è fatto tramite il verbo; ora il Verbo è Cristo; dunque, conclude Giustino a nome dei cristiani: “Tutto ciò che è stato detto di vero ci appartiene”. Questa affermazione, giustamente famosa, giustificava abbondantemente l’uso che i pensatori cristiani dei secoli successivi dovevano fare della filosofia greca».
(Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, 1973, p. 20).
Per saperne di più…
Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, 1991, pp. 67-130.
Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana. 3 – Platone e l’Accademia antica, Bompiani, 2004.
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