La Corte Costituzionale ha respinto il tentativo di legalizzare la diagnosi pre-impianto. La grave inaccettabilità di ogni fecondazione in vitro rimane, ma almeno è stato scongiurato il peggioramento della legge 40.
Una recente pronuncia della Corte Costituzionale ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica su una delle prescrizioni più significative della legge sulla procreazione medicalmente assistita (n. 40 del 2004): il divieto di diagnosi pre-impianto, e cioè di verifica dello stato di salute dell’embrione, operata mediante il prelevamento di alcune cellule dello stesso nei primi momenti di vita.
La questione era stata sollevata dal Tribunale di Cagliari, chiamato a pronunciarsi sul caso di due portatori sani del gene della talassemia, i quali si dolevano di non poter sapere se il concepito in vitro fosse affetto da tale patologia. Questa ipotesi, secondo le statistiche richiamate dal Tribunale, si sarebbe potuta verificare, si badi bene, soltanto nell’1% dei casi.
La Corte costituzionale ha emesso una pronunzia (ordinanza n. 369 del 2006) con la quale ha respinto la questione senza entrare nel merito della stessa. Ha adottato una decisione processuale di manifesta inammissibilità, fondata sul fatto che il Tribunale di Cagliari si era limitato a impugnare soltanto uno dei molteplici articoli della legge n. 40 dai quali, anche secondo lo stesso Tribunale, si desume il divieto di diagnosi pre-impianto.
Il diritto alla vita del concepito
In effetti, a tale proibizione si legano, in maniera indissolubile, molte delle previsioni della legge n. 40, tra le quali il divieto di produrre più di tre embrioni e di crioconservarli, con il conseguente obbligo, salvo cause di forza maggiore, di impianto degli stessi. Le previsioni ora richiamate, infatti, sono tutte intimamente connesse al principio cardine della legge n. 40, esplicitato dall’art. 1 della stessa: il ricorso alle tecniche di procreazione assistita, al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana, è consentito soltanto assicurando “i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Per inciso va ricordato che il diritto alla vita del concepito è stato riconosciuto in più decisioni della stessa Corte Costituzionale, persino quando – non senza incoerenza – ha finito col bilanciarlo con il diritto alla salute della donna, dando a quest’ultimo preminenza.
La ragione ispiratrice del divieto di diagnosi pre-impianto, a tutela dei diritti del concepito, è, da un lato, di evitare che indagini così invasive, realizzate nei primi momenti di sviluppo, gli causino gravi danni, come avverrebbe in un elevato numero di casi; dall’altro, di evitare la selezione eugenetica degli embrioni. È evidente che questa elementare tutela del concepito si scontra con gli interessi dei centri di procreazione medicalmente assistita, la cui attività dà vita a una vera e propria intrapresa commerciale. In proposito, basti pensare che, secondo rilevazioni recenti, in Italia vi è lo stesso numero di centri degli Stati Uniti d’America, che hanno una popolazione che è circa 5 volte quella italiana.
Si assiste, pertanto, a una massiccia opera di propaganda, anche sui mezzi di comunicazione, allo scopo di far passare, nell’opinione pubblica, l’idea che non ci sarebbe nulla di anomalo nel ricorrere alla tecniche di procreazione assistita e che il ricorso alla diagnosi pre-impianto costituirebbe un significativo progresso per la società, offrendo la possibilità di scegliere i figli “più sani”.
È chiaro che, una volta intaccato il principio che esclude la selezione degli embrioni, questa “possibilità di scelta” – in ossequio al principio costituzionale della parità di trattamento – dovrebbe essere estesa anche alle cop-pie che non hanno problemi di sterilità. Esse, come noto, non possono oggi, ai sensi della normativa in vigore, ricorrere alla procreazione assistita, dal momento che questa rappresenta lo strumento per supplire a eventuali deficienze della capacità di procreare, ma non il mezzo per evitare i rischi che, in natura, sono connessi a qualsiasi gravidanza.
Una volta che, inopinatamente, venisse aperta la via della diagnosi pre-impianto, attraverso una pronunzia della Corte costituzionale, o un intervento legislativo in contrasto con la volontà espressa dal popolo nel referendum della primavera 2005, è facile immaginare lo scenario del futuro: di fronte a una ben pubblicizzata campagna di promozione sui mezzi di comunicazione di massa, un numero immenso di persone, non perfettamente informate, potrebbero essere invogliate a ricorrere alle tecniche di procreazione assistita anche se non sterili, proprio perché con una modica cifra, di gran lunga inferiore a quella necessaria per acquistare un’autovettura, si potrebbero garantire un “figlio perfetto”.
Questa prospettiva, se si presenta infinitamente redditizia per i centri, si fonda, tuttavia, su una grossa mistificazione, nascosta dall’opera di propaganda sopra ricordata, dal momento che la diagnosi pre-impianto non serve a curare gli embrioni malati, ma semplicemente a eliminarli.
In sostanza, l’alternativa non è, come si vorrebbe far credere, se si vuole o meno un figlio sano – aspirazione più che comprensibile – ma se si è disposti a eliminare i figli malati per avere soltanto figli “selezionati”.
A tal fine si fa richiamo in maniera distorta a una locuzione, quella di un presunto “diritto ad avere un figlio sano”, con obiettivi davvero inaccettabili. Infatti, tale espressione viene utilizzata non per indicare il diritto – già tutelato nell’ordinamento italiano – a godere di prestazioni mediche che non danneggino il concepito, bensì per introdurre, in forma edulcorata, un diritto a scegliere gli embrioni più sani e a distruggere quelli che siano affetti da qualche malattia o imperfezione. Queste finalità – senz’altro in contrasto con i principi su cui si fonda l’ordinamento italiano – non possono che chiamarsi con il loro nome, e cioè eugenetica.
Ferma restando, dunque, tutta l’attenzione verso i portatori di malattie genetiche, non ci si può esimere dal ricordare quali conseguenze hanno prodotto nella storia le politiche della sanità della razza, ispirate dalla teoria delle lebensunwerten Lebens, e cioè della esistenza di “vite che non vale la pena vivere”.
Ricorda
«La legge 40 nomina – ed è la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano – l’em-brione umano come soggetto titolare di qualche diritto. Si tratta di un fatto positivo. Tuttavia, non bisogna tacere che proprio l’ammissibilità della Fivet – pur con le lodevoli limitazioni introdotte – contraddice l’affermazione del principio enunciato, poiché non è possibile fare fecondazione artificiale senza sacrificare embrioni umani. Non c’è un modo pienamente umano e giuridicamente giusto di produrre esseri umani in provetta».
(Mario Palmaro, il Timone n. 30, febbraio 2004, pp. 8-9)
Bibliografia
AA.VV., Diritto alla vita tra iuse biotecnologie I. La difesa del concepito, Annali della LUMSA, 16, a cura di M. P. Baccari, Giappichelli, 2006.
AA. VV., La tutela giuridica della vita prenatale, a cura di R. Rossano e S. Sibilla, Giappichelli, 2005.
Mario Palmaro, Ma questo è un uomo. Indagine storica, politica, etica, giuridica sul concepito, III ed., San Paolo, 2004.
IL TIMONE – N.60 – ANNO IX – Febbraio 2007 pag. 52-53