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13.12.2024

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Il Kattolico. Azazel
2 Aprile 2014

Il Kattolico. Azazel

Tra le tante agenzie e newsletter che ricevo e che di solito scorro indipendentemente dalla provenienza, dall’attendibilità o dal fatto che mi siano in qualche modo note, prima di decidere se archiviarle o cestinarle, una in particolare mi ha intrigato. Datata novembre 2013, arrivava dall’Associazione Culturale La Torre e rimandava al sito chiesaepostconcilio. blogspot.it. Qui c’era un articolo che riferiva alcune cose curiose contenute nei due Talmud. Essendomi qui occupato, in una “puntata” precedente, del Velo del Tempio, mi pare che il tema possa interessarci.
Innanzitutto, i due Talmud. Il termine, in ebraico, significa “istruzione” e anche “apprendimento”. Dopo la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio nel 70, la tragedia ebraica ebbe il suo epilogo con la rivolta di Shimon Bar Kokhba, stroncata dall’imperatore Adriano nel 135 con un massacro senza precedenti (quasi seicentomila morti, tra cui Bar Kokhba). Gerusalemme divenne una colonia romana dedicata a Giove col nome di Aelia Capitolina e agli ebrei venne impedito di mettervi piede pena la morte, divieto che fu rimosso solo con Costantino. Persa la speranza dell’avvento del Messia-re guerriero (speranza che era stata riposta in Bar Kokhba), i rabbini giudaici ripiegarono sullo studio della Scrittura, della Tradizione orale (Mishnah) e delle sentenze rabbiniche (commenti) ad esse collegate. Le raccolte che ne scaturirono videro la luce tra il IV e il V secolo, e sono i due Talmud, uno elaborato in Mesopotamia e detto “babilonese” (Bavlì), e l’altro in Palestina e chiamato “di Gerusalemme” (Yerushalmi).
Ora, in quest’ultimo c’è un passo curioso, eccolo: «Quaranta anni prima della distruzione del Tempio, la luce occidentale si spense, il filo cremisi rimase cremisi, e il lotto per il Signore avvenne sempre con la mano sinistra. Avrebbero chiuso le porte del tempio di notte e si sarebbero alzati la mattina trovandole aperte». Qualcosa di molto simile è presente anche nell’altro Talmud: «I nostri rabbi insegnarono: nel corso degli ultimi quaranta anni prima della distruzione del Tempio il sorteggio non venne su con la mano destra, né il filo color cremisi divenne bianco, e la lampada occidentale non ha più brillato di lucentezza, e le porte del Tempio si sarebbero aperte da sole». Il lotto o sorteggio di cui si parla concerneva due pietre, una bianca e una nera, con le quali il Sommo Sacerdote sceglieva nel Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur) il caprone da sacrificare, cioè il capro espiatorio, poi divenuto proverbiale, che veniva indicato col nome (forse appositamente demoniaco) di Azazel. Ebbene, pare che per i quarant’anni precedenti alla distruzione del Tempio dal sorteggio sia uscita immancabilmente, tutti gli anni, la pietra nera. Per il calcolo delle probabilità la cosa ha dell’incredibile e non a caso l’evento fu considerato infausto. E che cos’era quel «filo cremisi» che doveva diventare bianco? Pare, anche qui, che si trattasse di una striscia di tessuto rosso che veniva legata al collo del capro “Azazel”, quello sorteggiato. Un pezzo di questa specie di collare veniva poi tagliato e assicurato alla porta del Tempio. Se l’indomani il suo colore era diventato bianco (forse per l’azione del sole, chissà), ciò era di buon auspicio perché veniva interpretato come segno di gradimento del sacrificio da parte di Jahwè. E il capro espiatorio era la vittima che si caricava simbolicamente le colpe dell’intero popolo di Israele. Infatti, così parlava Isaia (1,18): «Dice il Signore: se i vostri peccati fossero come lo scarlatto diventeranno bianchi come la neve, anche se fossero rossi come porpora diventeranno come lana». Probabilmente da questo passo profetico l’usanza del “filo cremisi” che, diventando bianco, rassicurava il popolo. Sembra che il rituale abbia sempre dato esito positivo. Fino a quarant’anni prima della distruzione del Tempio, periodo durante il quale il “filo” rimase rosso. Noi sappiamo che Gesù fu ucciso giusto una quarantina d’anni prima del 70, anno fatale della suddetta distruzione che Gesù stesso aveva profetizzato: «Mentre Gesù, uscito dal Tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del Tempio. Gesù disse loro: Vedete tutte queste cose? In verità vi dico, non resterà qui pietra su pietra che non venga diroccata» (Mt 24,1). Se questa storia del «filo cremisi» e della pietra Azazel è vera, si tratta di una coincidenza impressionante.
Ed ora veniamo alla faccenda delle porte del Tempio che si aprivano da sole. Anche questo strano evento si sarebbe verificato nei quarant’anni precedenti al 70. Queste porte, chiuse la sera, la mattina venivano trovate aperte. Il Talmud di Gerusalemme riporta una sentenza del maestro Ben Zakkai, che poi guidò la comunità trasferitasi a Jamnia dopo la repressione romana: «Disse Rabban Yohanan Ben Zakkai al Tempio: O Tempio, perché ci spaventi? Sappiamo che tu finirai distrutto». E Giuseppe Flavio riferisce che dopo la morte di Gesù furono udite provenire dall’interno del Tempio delle voci misteriose che gridavano: «Noi ce ne andiamo da qui!». E che questo fatto, corso di bocca in bocca, sgomentò gli israeliti. Infine, l’accenno talmudico alla «luce occidentale» che «si spense». Di che si trattava? Era il famoso candelabro a sette bracci, la Menorah, le cui fiamme dovevano essere accese al tramonto tramite quella del braccio «occidentale», che rimaneva perennemente accesa. Per consentire l’“eternità” di questa fiamma era costantemente a disposizione lì vicino dell’olio da lampada.

Ebbene, i passi talmudici di cui sopra dicono che nei quarant’anni che precedettero la distruzione del Tempio quella fiamma, la più importante, ogni notte si spegneva. Quantunque i sacerdoti moltiplicassero precauzioni e sorveglianza, al mattino veniva trovata spenta. Per quarant’anni di fila. Finché non ci fu più bisogno di accenderla perché nel 70 i romani si portarono via la Menorah col bottino di Gerusalemme espugnata, come si vede sulla Colonna Traiana. Da allora l’ebraismo non ebbe più Tempio, né sacerdoti, né sacrificio. L’unico tentativo di ricostruire il Tempio fu possibile solo sotto Giuliano l’Apostata, nel IV secolo, nel quadro della politica anticristiana di quell’imperatore. Ma i lavori furono sospesi perché si rivelò impossibile garantire l’incolumità degli operai, date le improvvise fiammate che si sprigionavano dagli scavi. Della Menorah e dell’Arca dell’Alleanza (che conteneva la Verga di Aronne e una scodella di “manna”) si persero ben presto le tracce.
Oggi sono solo miti su cui si sbizzarriscono gli scrittori di libri d’avventura. Fin dall’invasione araba, sul luogo del Tempio sorsero due grandi moschee, di cui la più importante è quella detta Cupola della Roccia, che nemmeno Goffredo di Buglione osò toccare, limitandosi ad adibirla a chiesa. Infatti, contiene la Roccia, cioè la cima del Monte Moria e la pietra su cui Abramo avrebbe dovuto sacrificare Isacco prima che Dio lo distogliesse. Quella pietra, pare, costituiva l’altare principale del Tempio. Il quale, per questo, non può essere ricostruito in alcun altro posto. La moschea della Roccia è per i musulmani un “luogo santo” al pari di La Mecca e Medina, perciò chiamano Gerusalemme “Al Quds”, La Santa, e nei secoli hanno mostrato di tenerci tanto. Da quella Roccia, dicono, Maometto ascese al cielo con tale impeto che la Roccia stessa non si staccava dai suoi piedi e fu trattenuta dall’angelo Gabriele, l’impronta della cui mano sarebbe rimasta impressa sulla pietra. Impossibile effettuare scavi e ricerche sulla Spianata delle Moschee per cercare tracce del Tempio ebraico. Ancora oggi, se qualche “miscredente” non autorizzato prova ad avvicinarsi, finisce male. L’ultima “intifada” scoppiò proprio lì quando l’allora premier israeliano Sharon osò mettevi piede. Proprio il giorno prima della mia ultima visita a Gerusalemme, nel Capodanno 2013, un ebreo ortodosso (di quelli col cappello nero e i boccoli alle tempie) aveva provocato una sassaiola di donne islamiche per averci fatto due passi ed era dovuta intervenire la polizia.
In ogni caso, avere il Tempio e non avere i sacerdoti che vi compiano il prescritto sacrificio a che servirebbe? Infatti, solo i discendenti della tribù di Levi, i leviti, possono farlo. Ma ne esistono ancora? E, se sì, chi sono? La discendenza ebraica è trasmessa dalla madre, non dal padre, perciò è inutile avere Levi o Lévy o Lewis come cognome: non significa nulla. Dopo duemila anni ricostruire genealogie esatte è praticamente impossibile. Si aggiunga che lo stesso ebraismo “religioso” (la maggior parte degli ebrei è “laica” come il resto degli occidentali) è diviso sul tema. Certe scuole dicono che solo il Messia, quando verrà, sarà autorizzato a ricostruire il Tempio. Certe altre estendono la ricostituzione per mano messianica allo stesso Stato di Israele, che perciò sarebbe religiosamente illegittimo. Alcuni sostengono, addirittura, che il Messia non è altri che l’intero popolo ebraico, e che la Shoà-Olocausto (il «servo sofferente» di Jahwè) ne sarebbe la prova. Insomma, le cose restano in alto mare.
Per noi che crediamo che il Messia sia già venuto e sia Gesù di Nazareth val la pena di concludere con uno dei pochi passi evangelici in cui il Cristo non parla con similitudini (“parabole”) e che una volta tanto possiamo ascoltare direttamente dall’originale greco (cfr. Il buon messaggio seguendo Matteo, a cura di Enzo Mandruzzato, Lindau): «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono inviati a te, quante volte volli raccogliere i tuoi figli, come un uccello raccoglie i suoi piccoli sotto le ali, e non avete voluto. Ecco: “È abbandonata a voi la vostra casa”. Perché io vi dico: che non mi vediate più fino a quando direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”».   


DA NON PERDERE

Sherlock Holmes e Don Bosco

Com’è morto il famoso scrittore italiano (e garibaldino) Ippolito Nievo? E che cosa ci fa Sherlock Holmes a Napoli? Infine, che cosa c’entra il grande investigatore londinese con Don Bosco? Rino Cammilleri ha scelto una trama gialla per mettere a confronto il grande scontro che nell’Ottocento oppose il cattolicesimo all’ismo imperante, il razionalismo scientista. Su uno sfondo storico ben preciso, l’Italia fresca di unità politica, la ricerca della verità è affrontata da due personaggi emblematici, ognuno a suo modo. Don Bosco è la razionalità dell’antica scolastica, che sa perfettamente che -come dice Amleto a Orazio- «ci sono più cose in cielo e in terra che in tutta la tua filosofia». Sherlock Holmes è, al contrario, il prototipo del superuomo ottocentesco (nel momento del massimo fulgore dell’Impero Britannico): usa solo il cervello e la scienza, l’armamentario con cui il pensiero moderno si sbarazza della religione, retaggio di epoche d’ignoranza.

Rino Cammilleri, Sherlock Holmes e il misterioso caso di Ippolito Nievo, Il Giallo Mondadori n. 3102, pp. 250, € 4,90.

IL TIMONE – Aprile 2014 (pag. 20 – 21) 

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