Ebbene, i passi talmudici di cui sopra dicono che nei quarant’anni che precedettero la distruzione del Tempio quella fiamma, la più importante, ogni notte si spegneva. Quantunque i sacerdoti moltiplicassero precauzioni e sorveglianza, al mattino veniva trovata spenta. Per quarant’anni di fila. Finché non ci fu più bisogno di accenderla perché nel 70 i romani si portarono via la Menorah col bottino di Gerusalemme espugnata, come si vede sulla Colonna Traiana. Da allora l’ebraismo non ebbe più Tempio, né sacerdoti, né sacrificio. L’unico tentativo di ricostruire il Tempio fu possibile solo sotto Giuliano l’Apostata, nel IV secolo, nel quadro della politica anticristiana di quell’imperatore. Ma i lavori furono sospesi perché si rivelò impossibile garantire l’incolumità degli operai, date le improvvise fiammate che si sprigionavano dagli scavi. Della Menorah e dell’Arca dell’Alleanza (che conteneva la Verga di Aronne e una scodella di “manna”) si persero ben presto le tracce.
Oggi sono solo miti su cui si sbizzarriscono gli scrittori di libri d’avventura. Fin dall’invasione araba, sul luogo del Tempio sorsero due grandi moschee, di cui la più importante è quella detta Cupola della Roccia, che nemmeno Goffredo di Buglione osò toccare, limitandosi ad adibirla a chiesa. Infatti, contiene la Roccia, cioè la cima del Monte Moria e la pietra su cui Abramo avrebbe dovuto sacrificare Isacco prima che Dio lo distogliesse. Quella pietra, pare, costituiva l’altare principale del Tempio. Il quale, per questo, non può essere ricostruito in alcun altro posto. La moschea della Roccia è per i musulmani un “luogo santo” al pari di La Mecca e Medina, perciò chiamano Gerusalemme “Al Quds”, La Santa, e nei secoli hanno mostrato di tenerci tanto. Da quella Roccia, dicono, Maometto ascese al cielo con tale impeto che la Roccia stessa non si staccava dai suoi piedi e fu trattenuta dall’angelo Gabriele, l’impronta della cui mano sarebbe rimasta impressa sulla pietra. Impossibile effettuare scavi e ricerche sulla Spianata delle Moschee per cercare tracce del Tempio ebraico. Ancora oggi, se qualche “miscredente” non autorizzato prova ad avvicinarsi, finisce male. L’ultima “intifada” scoppiò proprio lì quando l’allora premier israeliano Sharon osò mettevi piede. Proprio il giorno prima della mia ultima visita a Gerusalemme, nel Capodanno 2013, un ebreo ortodosso (di quelli col cappello nero e i boccoli alle tempie) aveva provocato una sassaiola di donne islamiche per averci fatto due passi ed era dovuta intervenire la polizia.
In ogni caso, avere il Tempio e non avere i sacerdoti che vi compiano il prescritto sacrificio a che servirebbe? Infatti, solo i discendenti della tribù di Levi, i leviti, possono farlo. Ma ne esistono ancora? E, se sì, chi sono? La discendenza ebraica è trasmessa dalla madre, non dal padre, perciò è inutile avere Levi o Lévy o Lewis come cognome: non significa nulla. Dopo duemila anni ricostruire genealogie esatte è praticamente impossibile. Si aggiunga che lo stesso ebraismo “religioso” (la maggior parte degli ebrei è “laica” come il resto degli occidentali) è diviso sul tema. Certe scuole dicono che solo il Messia, quando verrà, sarà autorizzato a ricostruire il Tempio. Certe altre estendono la ricostituzione per mano messianica allo stesso Stato di Israele, che perciò sarebbe religiosamente illegittimo. Alcuni sostengono, addirittura, che il Messia non è altri che l’intero popolo ebraico, e che la Shoà-Olocausto (il «servo sofferente» di Jahwè) ne sarebbe la prova. Insomma, le cose restano in alto mare.
Per noi che crediamo che il Messia sia già venuto e sia Gesù di Nazareth val la pena di concludere con uno dei pochi passi evangelici in cui il Cristo non parla con similitudini (“parabole”) e che una volta tanto possiamo ascoltare direttamente dall’originale greco (cfr. Il buon messaggio seguendo Matteo, a cura di Enzo Mandruzzato, Lindau): «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono inviati a te, quante volte volli raccogliere i tuoi figli, come un uccello raccoglie i suoi piccoli sotto le ali, e non avete voluto. Ecco: “È abbandonata a voi la vostra casa”. Perché io vi dico: che non mi vediate più fino a quando direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”».
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Sherlock Holmes e Don Bosco
Com’è morto il famoso scrittore italiano (e garibaldino) Ippolito Nievo? E che cosa ci fa Sherlock Holmes a Napoli? Infine, che cosa c’entra il grande investigatore londinese con Don Bosco? Rino Cammilleri ha scelto una trama gialla per mettere a confronto il grande scontro che nell’Ottocento oppose il cattolicesimo all’ismo imperante, il razionalismo scientista. Su uno sfondo storico ben preciso, l’Italia fresca di unità politica, la ricerca della verità è affrontata da due personaggi emblematici, ognuno a suo modo. Don Bosco è la razionalità dell’antica scolastica, che sa perfettamente che -come dice Amleto a Orazio- «ci sono più cose in cielo e in terra che in tutta la tua filosofia». Sherlock Holmes è, al contrario, il prototipo del superuomo ottocentesco (nel momento del massimo fulgore dell’Impero Britannico): usa solo il cervello e la scienza, l’armamentario con cui il pensiero moderno si sbarazza della religione, retaggio di epoche d’ignoranza.
Rino Cammilleri, Sherlock Holmes e il misterioso caso di Ippolito Nievo, Il Giallo Mondadori n. 3102, pp. 250, € 4,90.
IL TIMONE – Aprile 2014 (pag. 20 – 21)
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