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13.12.2024

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Il Kattolico. Eleni
31 Gennaio 2014

Il Kattolico. Eleni

C’è un film americano del 1985, Eleni, del quale quasi nessuno si è accorto. E dire che il protagonista era nientemeno che John Malkovich e il regista Peter Yates, due stelle pluripremiate del firmamento hollywoodiano. Eppure, nelle nostre sale non è mai passato. È uscito, tradotto, solo in dvd, ma anche questo è ormai un ricordo, forse lo trovate in qualche bancarella dell’usato o nei negozi superspecializzati. Il motivo del silenzio su questo film è probabilmente da ricercarsi nella trama, visto che si tratta di un soggetto anticomunista. Come si sa, certi argomenti da noi hanno poco spazio e, al cinema, nessuna distribuzione. Il film è tratto da un romanzo di Nick Gage che fu bestseller negli Usa. E il romanzo è a sua volta tratto da una storia vera.
La trama: un reporter del New York Times, di origine greca, va ad Atene per intervistare un alto esponente, ormai anziano, della corte costituzionale. Solo che, quando i due sono soli, il reporter, anziché estrarre il taccuino, spiana una pistola. È infatti venuto per vendicare la sua famiglia e soprattutto sua madre, la Eleni del titolo. Durante la guerra civile greca (1945- 49), questa fu giustiziata da un tribunale rivoluzionario di partigiani comunisti presieduto da quello che adesso ha fatto carriera nella magistratura greca. I comunisti, infatti, rastrellavano i villaggi per prelevarne i bambini e mandarli alla “rieducazione socialista” in Cecoslovacchia o in altri Paesi del blocco sovietico come Bulgaria, Romania, Ungheria. Trentamila bambini greci furono strappati alle loro famiglie e deportati in tal modo. Molti di loro poterono cominciare a rientrare in Grecia solo nella seconda metà degli anni Settanta, ormai adulti o addirittura anziani (naturalmente, delle loro famiglie originarie non era rimasto praticamente nessuno). Degli altri non si è saputo più nulla. Eleni, la madre del reporter, alla notizia che i comunisti stavano arrivando azzoppò di sua mano una delle figlie con un ferro rovente proprio per non farla portare via. Il maschietto, piccolissimo, riuscì a farlo fuggire. La storia ci dice che circa venticinquemila bambini furono salvati da queste deportazioni dalle organizzazioni che la regina Federica di Hannover aveva messo in piedi nel Sud della Grecia e che venivano gestite da religiosi. Forse il nostro reporter fu tra questi. Il bambino finì adottato da una famiglia americana e divenne il reporter che sappiamo. Eleni e le altre madri furono passate per le armi. Il reporter ricorda tutto questo all’uomo che gli ha ucciso la madre e distrutto la famiglia. Ma, mentre sta per premere il grilletto, dalla porta entra la nipotina del vecchio giudice e, davanti a quell’innocente, il reporter non ha più il coraggio di portare a termine la sua vendetta. Fa dunque ritorno in America senza averla compiuta. Questo il film.
Da noi la cosiddetta guerra civile greca non ha avuto molta stampa, e nemmeno la saggistica se ne è occupata più di tanto. E dire che ci riguarda da vicino, e non solo per la prossimità geografica. Infatti, poco ci mancò che anche da noi la guerra civile e il “sangue dei vinti” degenerassero in una guerra aperta tra quelli che volevano trasformare il Paese in una “democrazia” alla sovietica e l’esercito regolare (più gli Alleati ancora presenti). In Italia, il passaggio dei comunisti alla lotta armata rivoluzionaria fu impedito dal rientro di Togliatti dall’Urss e dalla sua famosa “svolta di Salerno”. In Grecia non fu così e i partigiani comunisti, dopo aver combattuto contro gli italiani e i tedeschi, rivolsero le armi contro il governo per instaurare una repubblica staliniana. Anche in Grecia, come in Italia, la Resistenza era variegata e partigiani di ogni colore politico ne facevano parte (anche perché i greci avevano combattuto fin da subito contro l’invasore, mentre per l’Italia si era verificato un rovesciamento delle alleanze). Ma anche in Grecia, come prima in Spagna e poi in Italia, i comunisti avevano finito per egemonizzarla, in base alla vecchia tattica delle “larghe intese” che la minoranza meglio organizzata avrebbe portato dove voleva. E quando le buone non bastavano si ricorreva alle cattive, come al tempo della guerra di Spagna, quando i comunisti erano quasi più impegnati a far fuori i concorrenti anarchici e trotzkisti che non il nemico nazionalista. Anche la Grecia, dunque, ebbe le sue “Porzûs”, con partigiani rossi che eliminavano quelli bianchi o d’altro colore.
Sentendosi ormai forti, verso la fine del 1944 i comunisti si sentirono autorizzati a chiedere al nuovo governo Papandreu (dopo il ritiro dei tedeschi, il socialdemocratico Georgios Papandreu aveva formato un governo di unità nazionale) addirittura metà dei ministeri, tra cui i dicasteri più importanti. Al rifiuto di quest’ultimo, la parola passò alla piazza: il 3 dicembre 1944 una grande manifestazione ad Atene invase le strade per reclamare le dimissioni del governo. Ma le cose degenerarono, la polizia sparò e ci furono diversi morti. Fu il segnale per la rivoluzione. Solo che in Grecia erano ancora presenti le forze inglesi, che appoggiarono quelle governative. E tuttavia, l’inveterata abitudine di sbarazzarsi della concorrenza non venne meno, visto che il 19 dello stesso mese la più importante forza partigiana non comunista, l’Edes di Napoleon Zervas, fedele al re, fu fatta fuori a mano armata. L’insurrezione tenne in scacco la capitale per un mese, poi fu decisa la ritirata verso le zone montagnose del Nord per continuare da lì la lotta. Gli insorti arrestarono e deportarono quindicimila cittadini ateniesi come ostaggi, scelti spesso a caso tra borghesi medi e alti, donne e bambini compresi. Molti di questi (si calcola sui quattromila) morirono per gli strapazzi e il freddo durante il tragitto. Naturalmente, gli anarchici, i trotzkisti, i sindacalisti indipendenti, veri o presunti, di Atene avevano conosciuto la purga staliniana nel corso del mese in cui gli insorti avevano avuto mano sostanzialmente libera. I comunisti in guerra contro il governo e gli inglesi si erano asserragliati al Nord perché contavano sulla vicinanza della frontiera jugoslava. In Jugoslavia, infatti, la strategia comunista di egemonizzare la resistenza agli italiani e ai tedeschi per poi restare soli, i titini, e impadronirsi del potere era perfettamente riuscita. E i greci contavano sull’aiuto dei confratelli jugoslavi.
Ma non sapevano che Stalin li aveva abbandonati a se stessi. Yalta era ormai decisa e se il furbo georgiano aveva finto di traccheggiare, lì per lì, era stato solo per dare qualche fastidio agli inglesi. Le “repressioni” di questi ultimi nei confronti dei rivoluzionari greci servivano a bilanciare propagandisticamente quelle, di ben altro tenore, che avvenivano nei Paesi caduti nella sfera sovietica. Quando a Londra prevalsero i laburisti (e consiglieri militari Usa sostituirono i britannici) e Tito prese le distanze dalla pericolosa (per lui) tutela dell’Urss, le frontiere jugoslave vennero chiuse e per i comunisti greci la sorte fu segnata. Le forze governative greche, ben armate e superiori di numero, chiusero la questione con pugno di ferro e nel 1949 tutto era finito.
La guerra tra i comunisti appoggiati dagli jugoslavi e dagli albanesi e il governo ellenico, sostenuto dagli inglesi prima e dagli americani poi, costò ottantamila morti. In quel fatale dicembre 1944 lo stesso Churchill si era portato ad Atene per cercare una mediazione ma non si era venuti a capo di nulla. A Papandreu era allora succeduto il generale Nikolas Plastiras, che era stato presidente di quell’Edes che i comunisti avevano spazzato via. Con gli accordi di Varzika del 1945 gli ormai ex partigiani avrebbero dovuto consegnare le armi in loro possesso (tra cui più di trenta pezzi di artiglieria). Seguirono, nel 1946, elezioni a cui i comunisti rifiutarono di partecipare. A maggior ragione rifiutarono l’esito del successivo referendum che sancì la vittoria della monarchia e proclamarono la loro Repubblica Democratica sulle montagne, avvalendosi di afflussi armati di macedoni, bulgari e albanesi. Il loro governo clandestino, guidato da Markos Vafiadis, riuscì ad assumere il controllo di quasi tre quarti del territorio greco, mentre le forze del governo ateniese controllavano solo la capitale e le grandi città. A ogni offensiva di queste ultime, di solito i guerriglieri rossi si ritiravano sulle loro montagne, per poi ridiscendere a valle e ricominciare con le azioni belliche.
Nel 1947 i britannici sospesero ogni aiuto ad Atene perché stremati finanziariamente. Subentrarono loro gli americani, ma solo con materiale e consiglieri. Nell’estate del 1948 una grande battaglia campale nel Sud spezzò le reni alle forze comuniste, che perdettero quasi metà dei loro effettivi (circa ventimila combattenti rimasero sul terreno). Malgrado i rinforzi d’oltreconfine, i rossi non riuscirono più a recuperare le posizioni perdute. Anzi, l’intervenuta rottura tra Tito e Mosca portò alla defenestrazione del filojugoslavo Markos Vafiadis, che finì agli arresti come “deviazionista” in Urss. Il partito comunista greco, di stretta osservanza sovietica, si vide perciò abbandonato da Tito, che addirittura sigillò le sue frontiere verso la Grecia. L’epurazione interna degli elementi titoisti diede il colpo di grazia ai comunisti greci, che subirono una definitiva sconfitta per mano del generale Alexandros Papagos. Ridottisi a un pugno di sbandati, ripararono in Albania e negli altri Paesi comunisti. Con l’ottobre del 1949 la guerra era conclusa.
Ma solo nel 1989 l’insurrezione comunista venne ufficialmente derubricata, dal Parlamento, a “guerra civile” tra l’“esercito nazionale ellenico” e l’“esercito democratico greco”. La Grecia, dunque, dopo la seconda guerra mondiale non ebbe mai un partito comunista così potente e influente come quello italiano, che era il partito comunista più forte nel mondo occidentale. La differenza la fece una personalità come Togliatti, che sempre impedì ai suoi una deriva “greca”.

IL TIMONE N. 127 – ANNO XV – Novembre 2013 – pag. 20 – 21

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