Gesù aveva detto chiaramente di essere venuto a portare non la pace sulla terra ma la spada, profetizzando che il suo messaggio avrebbe diviso anche le famiglie. Ciò si è verificato in tutte le epoche e fin dall’inizio, con case ebraiche in cui uno seguiva l’insegnamento del Nazareno e un altro che restava fariseo o sinedrita, e pure nell’impero romano c’erano figli e mogli cristiani con padri e mariti pagani. E non di rado il dissidio finiva pure in tribunale e con esecuzioni capitali.
Non è il caso qui di ripercorrere tutta la storia umana dopo Cristo, ma la divisione intrafamiliare è stata più che evidente con l’avvento delle ideologie. Per restare più vicini a noi, pensiamo alla rivoluzione giacobina italica, cioè il Risorgimento. Non pochi “piemontesi” di primo piano ebbero congiunti che militarono nell’altra parte della barricata. Massimo D’Azeglio aveva un fratello gesuita, Luigi, che fu addirittura tra i fondatori de “La civiltà cattolica”. Il fratello maggiore di Cavour, Cesare, aveva fatto parte delle “Amicizie cristiane” antinapoleoniche fondate dal venerabile Pio Bruno Lanteri. Pure Silvio Pellico aveva un fratello gesuita, e fu anche processato per avergli dato rifugio quando quello era braccato dal governo liberale. Meno noto è il fatto che anche Gerolamo Bixio detto Nino, braccio destro di Garibaldi e fucilatore di contadini a Bronte, aveva un fratello gesuita, Giuseppe (gli altri due fratelli Bixio, Alessandro e Gianbattista, erano uno banchiere a Parigi e l’altro arruolato nella Royal Navy).
Nino, carbonaro, mazziniano e anticlericalissimo, sposò la figlia di sua sorella e, dopo una vita densa di battaglie e avventure, andò a morire di febbre gialla a Sumatra. Il fratello Giuseppe, che è quello che ci interessa, entrò nella Compagnia di Gesù e fu ordinato sacerdote. Finì a fare il missionario negli Stati Uniti, prima nel Maryland e poi nell’Oregon, dove prese le parti degli indiani Nez-Percés (o Nasi Forati) contro le vessazioni dei bianchi. Nel suo diario scriveva di non aver visto mai «un indiano ubriaco, non ho mai conosciuto un indiano ladro o assassino, non ho mai visto un indiano sparare per primo». Aveva visto, invece, «capanne bruciate, fosse comuni, accordi di pace stracciati». Gli indiani nordamericani chiamavano i gesuiti «manti neri» per via dell’abito, e ne ricevevano istruzione. E, per quanto possibile, protezione. Ma ai bianchi w.a.s.p. (“White Anglo-SaxonProtestant”) quei preti papisti e per giunta gesuiti facevano un baffo. Così, i Nez-Percés dovettero riparare in Canada e padre Bixio si spostò in California, dove nel 1855 fondò con due confratelli italiani il Saint Ignatius College (poi divenuto l’Università di San Francisco). Cinque anni più tardi si trasferì in Virginia, dove divenne parroco. Ma subito scoppiò la Guerra di Secessione e padre Bixio, senza pensarci due volte, si arruolò come cappellano nell’esercito confederato.
Il caso è descritto da Gilberto Oneto nel libro Unità o libertà. Italiani e padani nella Guerra di Secessione americana, Il Cerchio). Perché la scelta di campo sudista? Forse la risposta va cercata in questa sua lettera: «Ho ancora negli occhi i villaggi degli indiani attaccati dai soldati blu, le donne e i bambini infilzati dalle loro sciabole come agnelli allo spiedo (…). Loro, gli yankee, questo lo chiamano progresso ». Durante la guerra, da buon Bixio, non si limitò a fare il cappellano ma, vestito da capitano, collaborò con l’intelligence confederata infiltrandosi spericolatamente, e più volte, nelle linee nemiche, tanto da diventare una specie di leggenda vivente per i soldati sudisti. L’episodio più clamoroso è del 1864, quando si trovava ad Atlanta assediata dai nordisti (la città sarà poi incendiata e il fatto immortalato sul grande schermo in Via col vento, dove, in una delle scene più epiche, Rhett Butler porta in salvo Scarlett O’Hara tra le fiamme). Padre Bixio trovò il corpo di un cappellano nordista e gli prese l’uniforme. Con quella indosso si presentò addirittura al generale Sherman e lo convinse a rilasciargli un salvacondotto che usò per trafugare un carico di vettovaglie e portarlo nella città assediata. Quando Sherman venne a sapere dell’ammanco e collegò i due fatti, diede ordine a uno squadrone di cavalleria di inseguire il fuggitivo e di appenderlo a un albero appena acciuffato. Ma quello non fu preso e, a guerra finita, scampò alla vendetta dei vincitori dimostrando di aver sempre soccorso i feriti, anche nordisti. Ritroviamo il nostro battagliero gesuita nel 1871 a San Francisco, dove capeggiò un corteo di cattolici che manifestavano contro la presa di Roma da parte dei piemontesi. In testa, lui e il capo dei Nez-Percés, battezzato come Marcel. Dopo qualche anno, eccolo in Australia, a Melbourne. Tornò negli Usa nel 1880 e nove anni dopo morì a Santa Clara. Fu sepolto con accanto le divise nordista e sudista (le aveva usate entrambe), un coltello e una pistola.
Ma, come racconta il libro di Oneto, non era l’unico italiano ad aver combattuto nella guerra civile americana. Parecchi erano i nostri connazionali nei due campi, ma più numerosi in quello confederato. Particolarmente interessante è la vicenda degli ex borbonici che militarono per due volte per il Sud, italico e americano, e in entrambi i casi finirono sconfitti. Dopo la battaglia del Volturno (1 ottobre 1860) gli “italiani” si trovarono con moltissimi prigionieri duosiciliani che rifiutavano di giurare fedeltà al Savoia. Liberarli non si poteva, perché sarebbero finiti a rimpinguare i ranghi della resistenza (poi chiamata “brigantaggio”). La soluzione venne pochi giorni dopo, il 6 novembre, quando Lincoln diventò presidente. Poiché era chiaro a tutti cosa sarebbe successo negli Usa, il garibaldino americano Chatam R. Wheat, che era della Louisiana, propose a Garibaldi il trasferimento dei prigionieri a New Orleans, perché i sudisti erano in grave svantaggio numerico nei confronti del Nord. Garibaldi, pur simpatizzando apertamente per Lincoln (questi, a guerra scoppiata, gli propose un comando nelle truppe unioniste ma l’Eroe rifiutò perché avrebbe accettato solo quello supremo), trovò buona l’idea (dimostrando, con ciò, che della causa antischiavista non gli importava più di tanto, ndr). Il 7 arrivò a Napoli il re Vittorio Emanuele e fu d’accordo. A gestire il tutto fu il solito don Liborio Romano, «che la sera prima del cambio di regime è ministro di Francesco II e il mattino dopo del governo Garibaldi». Fu così che migliaia di ex soldati borbonici vennero imbarcati in più riprese, e i sudisti americani poterono contare sull’incremento di militari addestrati e pure veterani. Naturalmente, alte proteste si levarono da parte di Lincoln nei confronti di Cavour, che fu costretto a cessare con gli imbarchi. I nordisti, dal canto loro, misero in atto il blocco navale contro i confederati. E i restanti prigionieri borbonici finirono nei lager di Fenestrelle e di altri luoghi. Con la caduta di Gaeta, di Messina e quella finale di Civitella del Tronto, i prigionieri “irriducibili” furono talmente tanti che il nuovo regime pensò di mandarli in campi di concentramento esteri. La prima idea fu l’Australia, che già gli inglesi usavano come colonia penale. Ma i britannici risposero picche. La seconda idea fu la Patagonia, ma anche qui l’Argentina non ne volle sapere. Idem per l’Indonesia o il Mar Rosso. Disperato, Cavour contattò perfino Lincoln e fu mandato educatamente a quel paese. Ma qui non seguiremo ulteriormente la sorte dei prigionieri napoletani in mano ai “fratelli d’Italia”. Andremo invece a vedere come andò a quelli finiti in uniforme grigia. Vennero inquadrati nelle Italian Guards e nelle Garibaldi Guards. Ma, quando questi ultimi – che naturalmente non capivano l’inglese – si resero conto del nome che era stato loro assegnato, protestarono con forza e ottennero di essere chiamati Bourbon Dragoons, nome anche più gradito agli americani perché ricordava loro la pregiata qualità di whisky (prodotta nella città di Bourbon, così battezzata in onore della monarchia francese che aveva aiutato gli americani nella guerra d’indipendenza).
Eh, gli americani, poverini, bisogna capirli. In quegli anni, per loro, tutti gli italiani in armi erano “garibaldi”, tanto era stato il martellamento propagandistico sull’Eroe dei Due Mondi nel mondo anglofono. Credo che ancora adesso per parecchi stranieri “garibaldi” sia l’unica parola italiana (insieme a “pizza” e “spaghetti”, naturalmente) che conoscono. Ne ho avuto personale esperienza quando, anni fa, in visita a un amico inglese che abitava in Italia, citofonai e mi rispose suo padre, che non parlava italiano, così: «Hi, garibaldi! garibaldi!». Tra le storie dei sudisti italiani spiccano quelle di Angelo Vaccaro, fatto prigioniero a Nashville nel 1864: si rifiutò di passare coi nordisti, così come aveva fatto coi piemontesi nella guerra civile italiana. Francesco Angelo faceva parte dei rangers a cavallo di John S. Mosby detto “Gray Ghost” (fantasma grigio), terrore dei nordisti. Carlo Patti era fratello della celebre soprano Adelina, contesa da tutte le corti europee. Giovanbattista Garibaldi (cognome piuttosto comune in Liguria) sotto il famoso generale “Stonewall” Jackson prese parte alle battaglie più importanti, come Harpers Ferry, Chancellorsville, Gettysburg, ed ebbe l’onore di venire sepolto a Lexington accanto al generale Lee, comandante in capo dei confederati. Purtroppo, gran parte dei documenti sudisti sono andati distrutti o perduti, perciò le notizie sui combattenti italiani sono scarse e frammentarie. Abbondano, naturalmente, quelle sui nordisti, perché la storia la racconta sempre chi vince. Ma, almeno qui, rendiamo onore a quei meridionali che ben per due volte, fedeli al loro giuramento, combatterono e caddero per la parte “sbagliata”.
IL TIMONE N. 130 – ANNO XVI – Febbraio 2014 – pag. 20 – 21
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