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15.12.2024

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Il Kattolico. Indian SS
9 Gennaio 2015

Il Kattolico. Indian SS

Indian 

Com’è noto, l’espansione europea nell’America del Sud fu operata dagli spagnoli nel XVI e XVII secolo. Gli spagnoli del “Siglo de oro”, cattolicissimi come i loro Re, concordarono col Papa la loro presenza nel Nuovo Mondo (fu l’arbitrato di Alessandro VI Borgia a definire la demarcazione tra la loro competenza territoriale e quella degli altrettanto cattolici portoghesi) con l’impegno dell’evangelizzazione degli indios.
Così, la Spagna diventò l’unica nazione missionaria della storia, facendosi carico, per prima cosa, di abolire i sacrifici umani fin lì praticati su scala industriale da Incas e Aztechi. Quella di vietare usanze efferate fu una politica umanitaria che poi, nell’Ottocento, misero in pratica tutte le potenze coloniali: in Africa venne usato il pugno di ferro contro la tratta degli schiavi, in India gli inglesi proibirono il sati (il rito con cui la vedova veniva arsa viva sul rogo del marito defunto) e spazzarono via manu militari gli strangolatori thugs, adoratori della dea Khalì.
Tornando all’impero spagnolo, grazie all’impegno di evangelizzazione gli indios divennero sudditi a tutti gli effetti di Madrid e i matrimoni misti furono incoraggiati. Di fatto, però, l’iperprotezione garantita ai nativi finì col rendere economicamente svantaggioso intraprendere attività nel Nuovo Mondo e furono complessivamente pochi gli spagnoli che vi si stabilirono.
Questa, secondo alcuni storici dell’economia moderni, fu la causa del pesante divario in termini di sviluppo tra il Nordamerica e il Sudamerica.
Al Nord la prima colonizzazione fu francese. E i francesi, cattolici pure loro, favorirono l’immissione di missionari e il battesimo cristiano dei pellerossa. Ma arrivarono gli inglesi, che non erano affatto papisti (anzi, erano stati educati a odiarlo, il papismo) e non avevano, ovviamente, per primi ministri cardinali di Santa Romana Chiesa come Richelieu e Mazarino.
Tra francesi e inglesi non tardò a scoppiare la Guerra dei Sette Anni (1756-1763), che fu combattuta in Europa e in tutte le colonie (anche in Africa e in India) e vinta dagli inglesi. I francesi dovettero cedere tutto il Canada e il Nordamerica (la Louisiana fu poi venduta da Napoleone per quattro soldi ai neonati Stati Uniti). Gli inglesi non avevano alcun interesse all’evangelizzazione degli indiani e presero a sbarcare in America ondate su ondate dei loro sudditi più poveri. I coloniali americani, una volta resisi indipendenti dall’Inghilterra, continuarono la vecchia politica d’espansione verso Ovest, ricacciando gli indiani sempre più in là e, alla fine, rinchiudendo i superstiti in riserve guardate a vista. Solo con le nuove filosofie emerse nella sinistra statunitense negli anni Sessanta del XX secolo l’opinione pubblica fu sensibilizzata sulla discriminazione razziale dei negri discendenti degli schiavi, che il nuovo linguaggio politicamente corretto cominciò a chiamare blacks, neri, anziché negroes (termine di origine spagnola: in spagnolo nero si dice negro ancora oggi, dall’aggettivo latino niger, nigra, nigrum). Lo stesso avvenne con gli indiani, che oggi vengono chiamati Native americans.
Peccato che di indiani non ce ne sono quasi più. Sempre nei Sixties il cinema prese a lamentarne la sorte con film come Soldato blu (con Candice Bergen), Il piccolo grande uomo (con Dustin Hoffman), Un uomo chiamato cavallo (con Richard Harris), dopo che l’epopea western li aveva visti sempre nel ruolo di cattivi (pensiamo a Sentieri selvaggi di John Ford con John Wayne) e, dunque, “giustamente” perdenti. La nuova tendenza è da considerarsi definitiva ed è stata giudicata un modo, per gli Usa, di lavarsi la coscienza. Da qui gli Oscar a Balla coi lupi (di e con Kevin Costner) e alla sua successiva versione ecologico-fantascientifica Avatar di James Cameron.
Dopo tanti film risarcitori dei blacks e del loro contributo alle guerre americane (da Glory – con Denzel Washington e Morgan Freeman – sulla Guerra di Secessione a Miracolo a Sant’Anna – di Spike Lee –sulla campagna d’Italia nella Seconda guerra mondiale), uno solo, tuttavia, è stato dedicato alla presenza indiana tra i marines: Windtalkers (con Nicholas Cage), che parla di un gruppo di indiani navajos reclutati contro i giapponesi nel Pacifico al solo scopo di trasmettere messaggi cifrati nel loro dialetto, che ovviamente i nipponici trovavano del tutto incomprensibile
Il cinema americano, va detto, non ha peli sulla lingua e non si fa scrupolo di parlare male della storia e della politica del suo Paese se lo ritiene giusto o se il politicamente corretto del momento lo richiede. Per esempio, Un uomo, un eroe (con Tom Berenger) del 1999 racconta la storia dei San Patricios, irlandesi che combattevano nei ranghi americani alla guerra contro il Messico del 1846-48 e che passarono dall’altra parte arruolandosi coi loro correligionari messicani (finirono tutti impiccati come traditori). Ma nessuno a Hollywood ha osato l’inosabile, cioè raccontare la storia di quei native americans che si arruolarono nelle SS.
La curiosità mi è venuta da una suggestione di Vittorio Messori, che vi ha accennato brevissimamente sul “Timone” n. 134. Sono andato a fare una ricerca in internet ed effettivamente ho trovato che durante l’ultimo conflitto mondiale c’erano indiani che non avevano ancora digerito il genocidio di fatto subìto dal loro popolo per mano statunitense. Essendo cittadini americani, erano stati arruolati come tutti gli altri e spediti a combattere sui vari fronti. Forse non tutti, ma certo un buon numero di loro indossò la divisa kaki U.S. obtorto collo, tant’è che alla prima occasione alcuni si comportarono come andiamo a raccontare.
Com’è noto, scoppiata la guerra le SS si dotarono di reparti combattenti, le cosiddette Waffen SS, alle quali aderirono volontari da tutta l’Europa e non solo: francesi, belgi, italiani, spagnoli, russi, ucraini, nativi dei Paesi baltici, finlandesi, irlandesi, scozzesi, africani, mongoli, tibetani, cinesi, indiani, indonesiani, musulmani arabi, palestinesi, balcanici, afghani, iraniani e irakeni. Specialmente nel momento in cui la Germania hitleriana sembrava prevalere sul continente, tanti giovani furono attratti da quel corpo d’élite dall’attillata divisa nera. E quando i tedeschi invasero l’Unione Sovietica non furono pochi gli invasi che li acclamarono come liberatori dall’oppressione comunista, in particolar modo i cosacchi, che corsero in gran numero ad arruolarsi sotto la svastica.
Ed eccoci ai pellerossa americani. Se andate sul web trovate un articolo del giornalista Gabriele Zaffiri sul sito CrimeList-Approfondimenti di Intelligence, dal quale traggo quel che segue. Solo da pochi anni sono stati declassificati i documenti, piuttosto imbarazzanti e perciò secretati, che narrano la vicenda di quei pellerossa, coscritti nell’esercito Usa e mandati a combattere in Europa, che finirono volontari nelle SS (mentre nell’USArmy volontari non erano affatto). Diversi di loro erano stati fatti prigionieri dei tedeschi, specialmente nel corso delle battaglie di Kasserine in Africa e di Cassino; altri erano stati catturati dopo lo sbarco alleato in Normandia. Non si sa se per loro iniziativa o per iniziativa tedesca, si aprì la possibilità di entrare nelle Waffen SS e di costituirvi un reparto etnico, come gli altri che già c’erano.
Tra questi pellerossa emerse un leader, il cherokee Standing Bull (Toro in Piedi), discendente dal mitico Sitting Bull (Toro Seduto), il vincitore di Custer a Little Bighorn, poi proditoriamente ucciso dai wasichu (i bianchi) nel 1890. Lui e gli altri, cresciuti nelle riserve, covavano un sordo astio nei confronti di quelli che consideravano gli oppressori della loro razza e si erano messi in testa che il Terzo Reich, vinta la guerra in Europa, avrebbe invaso gli Stati Uniti e permesso la creazione di uno Stato pellerossa autonomo e sovrano. Standing Bull ebbe in effetti un incontro col capo delle SS, Himmler, e da quell’incontro nacque la Aufklarung Reiter Kompanie “Chief Sitting Bull” (i pellerossa parlavano inglese), reparto di cavalleria da esplorazione di cui Standing Bull fu sturmbannführer (grado equivalente a maggiore). Questo reparto venne impiegato nell’offensiva delle Ardenne e si dice che fu addirittura la Gestapo a impedire che i suoi prigionieri americani venissero scalpati (forse da qui trasse ispirazione il regista Tarantino per una celebre scena del film Bastardi senza gloria). Lo ritroviamo nell’ultima disperata battaglia a Berlino contro i sovietici. Pare che il suo capo sia stato testimone di nozze di Hitler e la Braun nel bunker prima del loro suicidio. Standing Bull e altri trenta indiani finirono nelle mani dei russi, che li consegnarono agli americani.
Condannati per tradimento, quelli ancora in vita nel 1995 furono graziati da Clinton. Chissà, forse davvero Standing Bull credette di poter rinverdire gli antichi fasti del suo popolo.
Ma era puro mito, perché prima dell’avvento delle “giacche blu” la realtà erano continui massacri intertribali e una vita di nomadismo da età della pietra. La vera colpa degli yankees (e dei loro predecessori inglesi) era, semmai, quella di non aver lasciato mano libera ai missionari cattolici, il cui lavoro avrebbe condotto a un’assimilazione pacifica come era stato per l’America del Sud.
Ma l’economia di sola caccia al seguito delle grandi mandrie di bisonti richiedeva enormi spazi che l’incipiente industrialismo ottocentesco non poteva permettersi di lasciare ai nativi. Da qui la tragedia dei pellerossa americani.
È certo vero che nell’esercito di Roosevelt e poi di Truman i soldati indians erano trattati con disprezzo, ma lo stesso accadeva per i neri e gli ebrei, come Hollywood ha più volte denunciato.
La vicenda delle SS pellerossa, fonte di comprensibile imbarazzo per il governo Usa, finì seppellita negli archivi militari: gruppuscoli neonazi ce ne sono, negli States; meglio non aggiungere fantasie in qualche testa calda delle riserve… â–
 
Il Timone – Gennaio 2015

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