Il popolo ha riconosciuto il suo eroe, la sua guida. Saprà anche assimilarne l’insegnamento?
Di fronte alla grande emozione popolare dopo la morte di Giovanni Paolo II, la risposta a questa domanda è fondamentale per il futuro della Chiesa.
Quando nel pomeriggio del 16 ottobre 1978 l’arcivescovo di Cracovia, card. Karol Wojtyla, diventa papa Giovanni Paolo II, nella sua diocesi è in corso un Sinodo che ha come scopo quello di attuare i decreti del Concilio ecumenico Vaticano II; al contrario di quanto accade nelle diocesi dell’Europa occidentale, nella diocesi polacca il futuro Pontefice “legge” il Concilio come un dono e un’opportunità di evangelizzazione, mettendo la missione al centro della proposta pastorale.
Anche in questa particolare modalità di attuare il Vaticano II sta la forza del cattolicesimo polacco, oltre alla grandezza dei due maestri di Wojtyla, i cardinali Adam Stefan Sapieha e Stefan Wyszynski.
Giovanni Paolo II indubbiamente ha voluto presentarsi come il Papa del Vaticano II, trasmettendone i principi in ogni documento importante e soprattutto in quello che forse può essere definito il più importante intervento di Giovanni Paolo II, la promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che ripete un gesto, la pubblicazione di un catechismo universale, che la Chiesa ha compiuto solo due volte nella sua storia, in occasione del Concilio di Trento e, appunto, dopo il Vaticano II.
Nei paesi occidentali la Chiesa cattolica stava attraversando una profonda crisi che ruotava proprio e soprattutto intorno all’interpretazione dei testi conciliari. Nel 1978 erano passati solo dieci anni da quando papa Paolo VI aveva pubblicato l’enciclica Humanae vitae contro il parere di vescovi ed esperti – che volevano una posizione più “aperturista” della Chiesa in tema di sessualità – e per questo aveva dovuto subire una pesante opposizione che durò fino alla morte. In questo decennio drammatico in cui la Chiesa dovette affrontare l’apostasia di una generazione – i “sessantottini” – e la contestazione interna – quella rispetto alla quale per Jacques Maritain il modernismo era stato solo un raffreddore – papa Montini scrisse di «autodemolizione» della Chiesa e di «fumo di Satana» penetrato nel sacro recinto.
Il cardinale Karol Wojtyla diventa Papa in questo clima, teso e amareggiato dalla contrapposizione ideologica penetrata anche dentro la compagine ecclesiale. Alla prospettiva progressista, che voleva un cristianesimo proiettato verso una utopistica perfezione disincarnata che nei fatti diventava subalternità alle ideologie dominanti, si contrapponeva una reazione al seguito del vescovo francese mons. Marcel Lefébvre, “ribelle per obbedienza” come qualcuno lo definì, che avrebbe creato proprio durante il pontificato di Giovanni Paolo II una nuova ferita nella comunione ecclesiale dopo quelle ortodossa e protestante. Inoltre, molti religiosi abbandonavano la fedeltà ai rispettivi pastori e anche alla stessa Chiesa e saltava in molte comunità locali il legame di obbedienza, e quindi di comunione ecclesiale.
Nessuno, che abbia meno di 40 anni, fra coloro che hanno partecipato o osservato l’esplosione di affetto e devozione popolare di fronte alla morte di papa Giovanni Paolo II, ricorderà il clima completamente diverso della sua elezione. Eppure, alla morte del beato Giovanni XXIII, quindici anni prima, nel 1963, qualcosa di simile era accaduto. Ero un bambino ma ricordo la grande commozione per la scomparsa del “Papa buono”. Ma questa commozione e l’entusiasmo per il rinnovamento conciliare finirono presto, sepolti dalla contestazione del 1968, dalla crisi dei cattolici, confusi, intimiditi, in pieno complesso di inferiorità di fronte all’arroganza ideologica e rivoluzionaria del “mondo”.
Vi era chi auspicava un Concilio Vaticano terzo e riteneva i documenti del Concilio già superati e che comunque avevano attenuato la supposta carica innovatrice rappresentata dal “mito conciliare” di papa Giovanni. Altri al contrario si opponevano a quella che ritenevano e spesso veniva presentata come una rivoluzione negativa nella Chiesa in nome del Concilio.
Anticipata all’interno di un Paese comunista, la pastorale sostanzialmente missionaria verrà estesa da Giovanni Paolo II a tutta la Chiesa e andrà a costituire quella “nuova evangelizzazione” che diventerà la cifra del pontificato. Infatti, estraneo alla cultura dello scontro frontale, ma anche assolutamente lontano dalla prospettiva della resa, il cardinale di Cracovia organizzerà la vita della sua diocesi cercando di far crescere una cultura cristiana dalla fede ereditata dai padri, consapevole che la battaglia culturale è quella che determina la sopravvivenza della fede nel corso del tempo, perché se la fede diventa cultura, come poi dirà da Pontefice, allora può essere trasmessa di generazione in generazione, può diventare l’«abito» di un popolo, la sua stella polare.
Così, da Papa, accetterà la sfida della modernità, ma per cercare di vincere la battaglia, non come molti convinti che la Chiesa nel “villaggio globale” può soltanto ambire ad accompagnare il mondo moderno offrendo una testimonianza evangelica, senza la speranza e il desiderio di costruire un mondo migliore.
Non così il Papa venuto dall’est. Per lui accettare la sfida ha voluto dire combattere partendo dai temi sollevati dalla cultura dominante, senza trincerarsi in un linguaggio ermetico, comprensibile ai soli cattolici. «Non abbiate paura» di Gesù Cristo e della sua proposta di salvezza e di felicità, ha detto fin dai primi discorsi, anzitutto dal primo affacciandosi in piazza San Pietro, poi dedicando la prima enciclica all’uomo, «via della Chiesa». Ma quale uomo, quale antropologia?
I successivi 27 anni di pontificato saranno dedicati a descrivere le caratteristiche della persona umana, creata a immagine di Dio e non indipendente dal suo Creatore, come avrebbe voluto la parte vincente della modernità, a partire dall’umanesimo fino al nichilismo post 1989, passando per l’illuminismo settecentesco e ottocentesco e per il marxismo che costruirà i sistemi comunisti totalitari del ‘900, a partire dalla Rivoluzione russa del 1917.
Passato il tempo meraviglioso e fecondo della grande emozione davanti al Papa sofferente ed esposto post mortem alla venerazione dei fedeli – è questo un primo segno di santità, il riconoscimento popolare, come avvenne per madre Teresa di Calcutta – bisogna riprendere in mano e studiare veramente il suo Magistero. Che è la cosa che di lui ci rimarrà per sempre, anche quando quelli della mia generazione – per i quali Giovanni Paolo II è stato il Papa che ha accompagnato il passaggio dalla giovinezza alla maturità – non ci saranno più a raccontare a figli e nipoti la sua tenacia, i suoi viaggi, la sua straordinaria capacità di “entrare” nel cuore della gente. Il rischio infatti è che si ripeta quanto accaduto dopo il 13 maggio 1981, quando molti piansero e scesero nelle piazze a manifestare la loro vicinanza al Papa ferito e morente dopo l’attentato in San Pietro, ma solo il 32% degli italiani votanti si ritrovò con lui a difendere la vita nel referendum contro l’aborto soltanto quattro giorni dopo.
Allora ricordiamole e riprendiamole le 14 importanti encicliche che il Santo Padre ci ha lasciato in eredità, così come le esortazioni apostoliche e i tantissimi discorsi. Soprattutto i pastori e gli educatori si ricordino del suo insegnamento, affinché non vada perduto un patrimonio così prezioso.
Se lo ricordino gli uomini politici che hanno voluto l’Europa senza le sue radici – l’ultima grande battaglia, purtroppo perduta, di Giovanni Paolo II – e gli italiani in particolare abbiano la cortesia di leggersi o rileggersi la «grande preghiera per l’Italia e con l’Italia» che Giovanni Paolo II affidò a tutta la nazione perché non si dimenticasse le origini ma anche perché non si sottraesse alle sue responsabilità.
Abbiamo doverosamente dedicato questo dossier al Papa, cercando di mettere in risalto soprattutto quanto ci ha lasciato in eredità, quel Magistero che rimane a nostra disposizione, leggibile da chi vorrà. Non abbiamo la pretesa di essere riusciti a presentare adeguatamente i documenti pontifici anzi, siamo più consapevoli del contrario proprio dopo averne riletti molti in questa occasione, dalle encicliche ai discorsi, e avendo percepito quanto sia facile dimenticare e difficile assimilare. Siamo anche consapevoli della difficoltà che molti incontrano nell’accostarsi ai testi del Magistero, che non è quasi mai comprensibile senza un certo sforzo.
Vi sono però categorie di uomini che questo sforzo è bene che lo compiano, altrimenti l’amore per il Papa rimarrà un gesto sentimentale, bello e necessario, ma privo di durature conseguenze. Penso ai sacerdoti, ai confessori, ai docenti, ai giornalisti, a quelli che possono, se vogliono, accostarsi ai testi senza problemi, se non quello di decidere di farlo. Anche su di loro pesa la responsabilità se il messaggio di Giovanni Paolo II rimarrà e porterà frutto.
Dossier: Giovanni Paolo II: punti fermi
IL TIMONE – N. 43 – ANNO VII – Maggio 2005 – pag. 36-38