L’abdicazione di Celestino V dalla carica pontificia suscita ancora oggi grande scalpore. In questo atto vi è chi vede solo una vile rinuncia dalle proprie responsabilità come, probabilmente, Dante, che pone Celestino V nell’Antinferno, dedicandogli i versi che lo identificano come: “colui che per viltade fece il gran rifiuto”. Oppure chi, come Petrarca nel De vita solitaria, scorge in questo gesto sofferto e doloroso tutta la dignità di un uomo che rifiuta una carica per la quale, pur tenendola in altissima considerazione, non si sente adeguato.
In quel periodo storico si attendeva la nomina di un “papa angelico” che, finalmente, prestasse più attenzione all’ambito spirituale della Chiesa piuttosto che alla politica, con le sue interminabili lotte di potere. L’attesa era allora vibrante, soprattutto negli strati sociali più popolari, come attestano i numerosi movimenti di rinnovamento ecclesiale sorti in quel periodo, primi fra tutti il francescanesimo.
Tutto questo, però, non avrebbe dovuto far dimenticare che, per una carica complessa come quella pontificia, non è sufficiente avere solo delle attitudini di tipo spirituale.
Infatti, è necessaria oltre ad un’adeguata preparazione teologica anche un minimo di esperienza nella gestione dei complessi rapporti diplomatici con le diverse personalità politiche.
Celestino V è carente in tutto questo, avendo sempre vissuto ritirato dal mondo nel suo eremo a mille metri di altezza. Dopo la morte di Niccolò IV (1288-1292), i cardinali si riuniscono in conclave a Roma, prima nella basilica di S. Maria Maggiore, poi in quella di S. Maria Sopra Minerva.
L’accordo non si raggiunge perché i cardinali sono divisi tra i sostenitori degli Orsini e dei Colonna, due delle famiglie più potenti di Roma, in forte contrasto tra loro.
Vista la situazione di stalla, che dura ormai scandalosamente da più di due anni, il re di Napoli Carlo II d’Angiò, con il figlio Carlo Martello, si reca a Perugia dove il conclave si era trasferito, per caldeggiare una soluzione in breve tempo poiché, con la presenza di un Papa, i suoi interessi politici potevano essere meglio gestiti. Per fare questo, Carlo Il va a far visita all’eremita Pietro Morrone, che già conosceva, per sollecitargli la redazione di una lettera in cui non si risparmiassero critiche all’operato del concistoro per il lassismo che imperava, minacciando di gravi sciagure se non si fosse pervenuti a una rapida elezione.
Il cardinale decano del conclave, Latino di Malabranca, dopo aver letto la lettera ai cardinali, incomincia a pensare proprio a Pietro come possibile candidato. Così Pietro Morrone è eletto all’unanimità il 5 luglio 1294.
Pietro, ovviamente, non sa nulla dell’elezione fino a quando un’ambasceria di cardinali lo raggiunge nel suo eremo a portargli la notizia. Gli alti prelati si trovano di fronte un vecchio rintanato dentro una celletta spoglia, pallido ed emaciato per i continui digiuni.
Costernato per l’inattesa notizia, Pietro scongiura di lasciarlo alle sue contemplazioni, ma, per obbedienza, accetta. La vita di Pietro fino allora si era svolta tra Isernia, dove nasce intorno al 1210, undicesimo figlio di una famiglia di contadini, e gli Abruzzi. A ventuno anni già si ritira come eremita sulla Maiella. Presto attorno a lui si forma la Congregazione religiosa detta “dei poveri eremiti di Celesti no” , che il 22 marzo 1275 ottiene da papa Gregorio X (1271-1276) la bolla di conferma, sancendone l’appartenenza all’Ordine benedettino.
Pietro si rivela un mistico la cui intensa spiritualità è corroborata soprattutto dalla preghiera, dalla contemplazione e dai sacrifici.
Quattro mesi dopo la sua elezione a pontefice, su suggerimento di Carlo II d’Angiò, Celestino si stabilisce a Napoli, nonostante diverse pressioni perché risiedesse a Roma. Ma anche nel capoluogo partenopeo, come durante tutti i suoi tre mesi di pontificato, l’indole lo spinge verso quell’austerità vissuta per quasi ottant’anni. Fa così approntare una cella di legno nella residenza di Castelnuovo.
Come si può ben capire, Celesti no, sia per carattere sia per preparazione, non è assolutamente a suo agio tra gli intrighi politici, i lussi e gli sfarzi della corte pontificia.
Ben presto il pontificato diventa per lui un peso enorme.
Quando i tormenti e le notti insonni diventano quasi insopportabili, nel cuore di Celestino (o, forse, ancora di Pietro Morrone…), nasce l’idea dell’abdicazione per: “Causa di umiltà, di perfetta vita e preservazione della coscienza, per debolezza di salute e difetto di scienza, per ricuperare la pace e la consolazione dell’antico vivere”, come lui stesso afferma. Lavora otto giorni e otto notti sul documento di rinunzia al “trono”, per dare al suo sofferto passo un qualsivoglia fondamento giuridico. Già dal XIII secolo erano stati svolti studi in questo senso, ritenendo motivi sufficienti per l’abdicazione la malattia e l’età avanzata. Sembra che Celestino abbia chiesto consiglio anche al card. Caetani, suo successore come papa Bonifacio VIII (1294-1303), che si comportò con lui correttamente. Pertanto le voci dell’assassinio di Celestino V, dopo la sua abdicazione da parte di Bonifacio VIII, sono totalmente prive di riscontro storico. Tanto che lo stesso Bonifacio VIII, alla morte di Celesti no, ne eseguirà l’ufficio funebre.
Il 13 dicembre, davanti al concistoro riunito a Napoli, Celestino fa il gran passo dell’abdicazione.
La cerimonia è particolarmente toccante e, in un certo senso, impressionante: Celestino V scende dal trono togliendosi l’anello, la tiara e il mantello. Riveste la misera tonaca della sua congregazione e, sedendosi per terra, esorta il collegio a eleggere al più presto un nuovo papa per il bene della Chiesa e delle anime.
Bonifacio VIII decide di “tutelare” in qualche modo gli ultimi anni della vita di Pietro, sia per dare una dignitosa sistemazione ad un “ex pontefice”, sia perché temeva che la sua figura potesse alimentare delle spinte scismatiche che, a quei tempi, non erano da escludere. Ma Pietro non vuole rinunciare al suo eremo al Morrone. Sfugge alla custodia di Bonifacio e si ritira nella sua grotta.
Bonifacio è però fermo nel suo proposto: rintraccia Pietro dopo un suo tentativo di fuga via mare per raggiungere la costa dalmata e lo conduce, il 16 maggio 1295, nella fortezza di Fumone, vicino ad Alatri, dove gli farà trascorrere gli ultimi giorni accompagnato da due frati del suo Ordine.