Oggi, quando si vuole propagandare la bontà della planetaria strage degli innocenti, che si consuma attraverso lo sterminio dell’aborto, si grida alle buone ragioni delle donne, della scienza, alla cura di malattie devastanti (cui da tempo già si provvede con l’eutanasia). Niente di nuovo sotto il sole. Ieri, per spacciare per morale e giusta l’invasione e la soppressione dello Stato della Chiesa, si invocavano le stragi compiute da Pio IX. Quali stragi? Le famigerate stragi di Perugia.
Veniamo ai fatti. Vista la facilità con cui le “insurrezioni popolari” organizzate dai comitati locali della Società Nazionale di Giuseppe La Farina spodestano i governanti degli Stati dell’Italia centro-settentrionale, anche alcune città dello Stato pontificio provano ad insorgere. In questo caso le possibilità di successo sono pressoché nulle e ad Ancona, Fano e Senigallia la ribellione rientra spontaneamente prima dell’arrivo dell’esercito. Non così a Perugia. Come mai? Perché i liberali non interrompono prima che sia troppo tardi un’impresa senza speranza?
Andiamo con ordine: Perugia insorge il 14 giugno 1859 grazie all’aiuto determinante di Carlo Boncompagni, ambasciatore piemontese a Firenze, che affianca ai rivoluzionari locali qualche migliaio di uomini ben pagati ed armati provenienti dalla Toscana, camuffati da sudditi “insorgenti” del Papa-re.
Quando, come ovvio, le cose si mettono male perché l’intervento dell’esercito è inevitabile, il governo provvisorio, unanimemente composto da massoni, chiede ordini a Cavour: bisogna provare a resistere o, vista la sproporzione di forze, arrendersi subito? La risposta è decisa: bisogna resistere. Bisogna che Pio IX appaia un sovrano privo di scrupoli, senza pietà per la vita dei propri sudditi.
Scrive don Giacomo Margotti il 2 febbraio 1860 sull’Armonia: «Avendo pochi settari ribellata Perugia alla Santa Sede dimandarono poi al conte Camillo Benso di Cavour ministro del re di Piemonte, e capo dell’agitazione italiana, come doversi regolare nel caso che fossero attaccati dalle milizie del Pontefice, ebbero in risposta da quell’autorevole diplomatico, doversi difendere; giacché anche nel caso di avversa fortuna, meglio era far figurare il Papa come carnefice, che farlo comparire come vittima. E i settari s’attennero pienamente all’ordine ricevuto, e poi gridarono alle stragi di Perugia». Per aver osato raccontare i fatti, nonostante l’articolo 28 dello Statuto garantisse libertà di stampa, L’Armonia incorre in un mese di sospensione, in mille lire di multa e nella condanna a due mesi di carcere del direttore responsabile.
Obbedendo agli ordini di Cavour, i rivoluzionari fronteggiano l’esercito pontificio agli ordini del colonnello Schmid e il 20 giugno, dopo appena tre ore e mezzo di combattimenti, Perugia è liberata dal manipolo degli insorti. Questo il bilancio delle vittime: 10 morti e 35 feriti fra i papalini; 27 morti, un centinaio di feriti e 120 prigionieri fra gli insorti. I capi della rivolta e la maggioranza dei ribelli riparati in Toscana.
La cronaca delle vicende di Perugia è raccontata anche dal Giornale di Roma che si incarica di smentire la versione messa in circolazione dalla stampa estera, tutta tesa a dimostrare, secondo le previsioni di Cavour, la crudeltà della condotta delle truppe pontificie.
Brutale repressione? Per valutare l’operato dell’esercito del Papa conviene fare un raffronto con azioni militari di tipo analogo, compiute in situazioni il più possibile simili a quella considerata. È quanto fa la stampa cattolica, Armonia in testa, che propone un confronto con l’intervento dell’esercito subalpino a Genova, all’epoca dell’insurrezione del 1849. In quel frangente a dirigere le operazioni militari è il generale Alfonso La Marmora, personaggio di tutto rilievo nel Regno di Sardegna di metà Ottocento tanto che, dopo le dimissioni di Cavour all’indomani di Villafranca, diventerà per qualche mese presidente del Consiglio.
Per giudicare dell’operato di La Marmora a Genova ci serviamo di una testimonianza non sospetta perché rilasciata da un uomo di parte liberale, l’ex prete mazziniano Giorgio Asproni. Nel suo Diario politico, Asproni annota una confidenza fattagli dal ministro Ricci: questi si era lamentato col generale La Marmora «del saccheggio dato ad un quartiere di Genova e degli atti di violenta libidine su figlie di onorate famiglie». La difesa di La Marmora aveva lasciato il ministro senza parole: «i soldati erano bei giovani e in quelle violenze le donne avean pure provato un piacere». A questa considerazione, annota Asproni, Ricci aveva risposto a tono: «Auguro, Signor generale – aveva detto –, fortuna e piacere uguale a sua moglie e alle sue figlie».
Tornando a Perugia ed alla condotta dell’esercito pontificio, Cavour, come al solito, aveva visto giusto: come previsto le “stragi di Perugia” – che stragi non sono e che sono da addebitare per intero al cinico presidente del Consiglio del regno sardo – offrono un ottimo pretesto per giustificare l’invasione dell’Umbria e delle Marche. Il 7 settembre 1860 Cavour indirizza al segretario di stato, cardinal Antonelli, la seguente lettera: «Eminenza. Il Governo di Sua Maestà il Re di Sardegna non poté vedere senza grave rammarico la formazione e l’esistenza dei corpi di truppe mercenarie straniere [Cavour chiama mercenari i giovani cattolici provenienti da tutto il mondo accorsi in difesa dello Stato della Chiesa] al servizio del Governo Pontificio. L’ordinamento di siffatti corpi non formati, ad esempio di tutti i Governi civili, di cittadini del paese, ma di gente di ogni lingua, nazione e religione, offende profondamente la coscienza pubblica dell’Italia e dell’Europa. L’indisciplina inerente a tale genere di truppe, l’improvvida condotta dei loro capi, le minacce provocatrici di cui fanno pompa nei loro proclami, suscitano e mantengono un fermento oltremodo pericoloso. Vive pur sempre negli abitanti delle Marche e dell’Umbria la memoria dolorosa delle stragi di Perugia». Anche Vittorio Emanuele si richiama al collaudato luogo comune delle “stragi” e il 12 settembre sulla Gazzetta Ufficiale si dichiara «profondamente commosso dallo stato di quelle popolazioni [umbre e marchigiane] e dai pericoli loro, ne accettò la protezione, e ha dato ordine alle sue truppe d’entrare in quelle provincie a tutelarvi l’ordine, e impedire la rinnovazione dei fatti di Perugia».
“Giustizia” è fatta: Vittorio Emanuele e Cavour ristabiliscono la pace e l’ordine morale nei territori della Chiesa.
Bibliografia