Rivolgendosi ai cardinali, il Papa ricorda l’esistenza del male che vuole dominare il mondo. Il cristiano ha il dovere di combatterlo. E in questa lotta, il Papa ha bisogno dell’amicizia leale di tutti i cattolici
Il 21 maggio Benedetto XVI ha pranzato in Vaticano con tutti i membri del Collegio cardinalizio. Si è trattato di un modo con cui il Papa ha inteso manifestare il proprio gradimento per gli auguri affettuosi che i porporati gli avevano espresso nella duplice ricorrenza del suo ottantacinquesimo compleanno e del settimo anniversario della sua elezione alla Soglio pontificio.
In un breve discorso a braccio, il Papa ha confidato ai porporati i sentimenti con i quali ha vissuto i suoi primi sette anni di pontificato, ma ha anche voluto ringraziare il Signore di tutto quello che Egli gli ha concesso personalmente di sperimentare negli ottantacinque anni di vita. Benedetto XVI ha mostrato, anche in questa occasione, di pensare a sé, alla Chiesa e al mondo nella prospettiva teocentrica dell’amore di Dio che tutto governa con la sua provvidenza e a tutti fornisce le ispirazioni e i mezzi per realizzarsi compiutamente come uomini, in vista dell’incorporazione a Cristo, Redentore dell’uomo. Tale prospettiva teocentrica si esprime necessariamente come gratitudine, come ringraziamento (non per nulla il cuore della liturgia cattolica è l’Eucaristia, che vuol dire appunto ringraziamento): «Ringraziamento innanzitutto al Signore, per i tanti anni che mi ha concesso, anni con tanti giorni di gioia, splendidi tempi, ma anche notti oscure. Ma in retrospettiva si capisce che anche le notti erano necessarie e buone, motivo di ringraziamento».
Che cosa sono queste “notti”? Non sono soltanto le proprie sofferenze fisiche e morali, non solo le proprie manchevolezze, ma anche le sofferenze e le manchevolezze di tutti gli uomini che vivono in questo mondo, inclusi gli uomini che a vario titolo appartengono alla Chiesa, che opera nel mondo e per il mondo. A tutti, a ognuno, la Provvidenza divina rivolge una cura paterna; ciascuno è chiamato, con vocazione divina, alla perfezione della carità nella sequela di Cristo; a tutti sono elargiti i doni della grazia in rapporto alla propria vocazione specifica, e a tutti sono richiesti anche i sacrifici e le rinunce che fanno di ogni cristiano un imitatore di Cristo, compresa l’accettazione delle persecuzioni: insomma, a ognuno, come ha espressamente detto Gesù, è richiesto di “portare la Croce” con Lui. Ecco perché il ringraziamento del Papa il 21 maggio è da intendersi nella logica della vita cristiana: perché in un’ottica teocentrica tutto è grazia, anche le “notti oscure”, che significano i momenti di lotta interiore ed esteriore. Il Papa ci ricorda che il “portare la Croce” con Cristo impegna a resistere al male (dentro di noi e fuori di noi) e a promuovere il bene, anche in circostanze avverse. Il Papa ha infatti sottolineato che noi cristiani abbiamo bisogno di saperci membri di una Chiesa impegnata nella lotta: «Vediamo come il male vuol dominare nel mondo e che è necessario entrare in lotta contro il male. Vediamo come lo fa in tanti modi, cruenti, con le diverse forme di violenza, ma anche mascherato con il bene e proprio così distruggendo le fondamenta morali della società». A questo proposito Benedetto XVI ha citato sant’Agostino, per il quale tutta la storia umana è una “lotta tra due amori”: «L’amore di se stessi fino a dimenticare Dio, e l’amore di Dio fino a dimenticare se stessi». Papa Ratzinger fa notare che la “dimenticanza di sé” alla quale allude Agostino è l’abnegazione, fino all’estremo del martirio. Poi aggiunge: «Noi stiamo in questa lotta e in questa lotta è molto importante avere degli amici». Sono parole che commuovono, soprattutto pensando a quello che di lì a pochi giorni sarebbe successo e tanto avrebbe fatto soffrire il Santo Padre.
Noi approfittiamo di questa umile apertura del cuore con la quale Benedetto XVI ci fa comprendere come egli abbia bisogno dell’amicizia leale di tutti i cattolici. Il Papa chiede ai cardinali direttamente, e indirettamente a tutti noi, di sostenerlo nella lotta con la fedeltà a Cristo, che implica l’obbedienza filiale al suo Vicario e la preghiera per la sua persona e le sue intenzioni apostoliche. Ma, per quanto riguarda la nostra coscienza, dobbiamo imparare dal Papa il modo di interpretare gli eventi che ci riguardano. Il modo con cui il Papa si esprime costituisce un esempio di autentica spiritualità cristiana: spiritualità che egli vive nella dimensione propriamente sacerdotale (nella pienezza del sacerdozio che è l’episcopato, e nel sommo ministero di Pastore della Chiesa universale), ma che è sostanzialmente comune a tutti coloro che adorano Dio “in spirito e verità”. La spiritualità cristiana è infatti un modo di vivere basato sulla verità rivelata, un modo di vivere di chi vede dentro di sé e fuori di sé una sola cosa, la volontà salvifica di Dio. In questo senso, le parole di papa Ratzinger in quell’occasione richiamano il modo con cui si era presentato alla Chiesa nei giorni della sua elezione, definendosi «umile servitore nella vigna del Signore». La “vigna del Signore” è la Chiesa, la quale non ha altro compito che la diffusione del Vangelo e l’amministrazione dei sacramenti. In una coscienza teocentrica risuonano costantemente le parole di Gesù Cristo, il Dio fatto Uomo: «Andate e predicare il Vangelo a ogni creatura; chi crederà e si farà battezzare sarà salvato, chi non crederà sarà condannato». È questo appunto il fine della Chiesa, e a questo deve mirare il servizio che ognuno di noi è chiamato a compiere seguendo la propria vocazione. Non ci viene chiesto di capire tutto del mondo in cui viviamo, né di conoscere molte cose. Ci viene chiesto soltanto di agire in base a questa verità: che Dio ha creato ogni cosa in vista della nostra felicità eterna, e soltanto il peccato – che è entrato nel mondo per istigazione di Satana – può frustrare il disegno salvifico di Dio. Come dice sant’Agostino (e il Papa aveva certamente in mente questo suo insegnamento), «tutto ciò che di male c’è nel mondo, o è il peccato o è una conseguenza del peccato».
Questo modo di vedere il mondo e la propria vita non è un’opzione di fede cristiana tra le tante, non è prerogativa di una scuola teologica o di una tradizione spirituale: è l’unico modo coerente di vivere il cristianesimo nella sua essenza (il che non impedisce che, nelle sue necessarie declinazioni storico-culturali, ci sia uno spazio, aperto praticamente all’infinito, per tante diverse scelte ascetiche, mistiche e pastorali diverse). Si tratta, secondo il linguaggio teologico classico, del modo di vedere il mondo “con gli occhi della fede”, ossia con un orientamento al soprannaturale (il termine “soprannaturale” non piace oggi ad alcuni intellettuali cattolici, che si presentano come teologi “post-conciliari”: ma il Concilio non ha abolito questo termine, anzi lo ha usato appropriatamente nel parlare proprio dei misteri della nostra fede, che riguardano appunto Dio, che è il soprannaturale per essenza).
Quando Pietro, in nome di una presunta prudenza umana, tenta di dissuadere Gesù dalla lotta contro Satana (che avrebbe dovuto portarlo a coronare la sua missione redentrice con la Croce), il Maestro lo rimprovera, chiamandolo nientemeno che “Satana”, perché dimostra di non valutare le cose «secondo Dio», ma «secondo gli uomini» (cfr. Mt 16, 23).
Quando si perde di vista l’ordine soprannaturale, il cristiano si adegua al modo di ragionare di Satana, a quello spirito del Male che ha creato, fin dalle origini, una drammatica frattura tra la coscienza dell’uomo e il piano salvifico di Dio. Per questo il primo Papa ammoniva i cristiani del suo tempo ricordando loro: «Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo […]. E voi per opera sua credete in Dio, che l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria e così la vostra fede e la vostra speranza sono fisse in Dio».
Ricorda
«Siamo nella squadra del Signore, quindi nella squadra vittoriosa».
(Benedetto XVI, Parole rivolte ai cardinali, 21 maggio 2012).
IL TIMONE N. 115 – ANNO XIV – Luglio/Agosto 2012 – pag. 54 – 55
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