Uno dei motivi che tengono la gente lontana dalla religione è il silenzio assoluto sul «cosa ci guadagno». Da quel che appare è tutto un divieto di ciò che fa piacere e un obbligo reiterato, ossessivo, asfissiante alla «solidarietà», anche (o soprattutto) finanziaria. I vantaggi di tutto ciò dovrebbero consistere, a leggere fra le righe delle omelie, nel far contento un invisibile Gesù e in qualche grigliata «insieme». C’è un sacco di gente a cui, a mio avviso giustamente, questo tipo di «offerta» non fa né caldo né freddo. Anzi, non di rado la sola idea mette i brividi. Così, la «domanda» di senso e di sacro prende altre vie o, più semplicemente, non va in nessun posto.
Non voglio nascondervi che anch’io ho ragionato in tal modo per molto tempo; dunque, so di cosa parlo e addirittura condivido i sentimenti di chi si tiene alla larga da un cattolicesismo del genere. Qualcuno prima o poi dovrà studiare il fenomeno sociologico dell’imborghesimento e del moderatismo indotti nella mentalità dei cattolici dal mezzo secolo di «ombrello» democristiano. E qualche
teologo della storia dovrà mettersi a scrutare nelle pieghe dei fatti le periodiche persecuzioni cruente anticattoliche che la bontà (sì, bontà) di Dio ha permesso (e permette) per far ritrovare ai suoi figli l’essenza del cristianesimo, che è l’eroismo.
Mi spiego: siamo abituati, noi apologeti specialmente, a mettere sotto la lente d’ingrandimento i «persecutori». I nostri maggiori,
invece, vedevano le cose anche da un altro punto di vista, non meno reale: quello delle colpe, di fronte a Dio, dei «perseguitati».
Dicevano, non a torto, che erano i «peccati», individuali e sociali, a provocare la «correzione» (nella quale ci andavano di mezzo, come sempre, dei perfetti innocenti che si offrivano come parafulmine). Ora, poiché evangelicamente ha maggior responsabilità chi più ha ricevuto, è ovvio che Dio giudichi con maggior severità quelli che si dicono «suoi» rispetto agli altri che, come i biblici Niniviti, ai Suoi occhi non sanno nemmeno distinguere una mano dall’altra. Il defunto papa Wojtyla ha insistito parecchio sul «ritorno ai Novissimi» nelle prediche, per far partire finalmente la famosa rievangelizzazione; ma molti preti hanno due orecchi solo per far uscire dall’altro quel che entra dall’uno. Ebbene, uno di questi cosiddetti Novissimi è il Paradiso, di cui proprio l’uomo edonista
del Terzo Millennio dovrebbe essere avido di sentir parlare. Però rimane, anche per i credenti, un mistero fai-da-te, nel senso che ognuno è costretto a immaginarselo come gli pare, magari con le settanta vergini urì.
Anch’io, in mancanza di informazioni, devo andare a tentoni e posso comunicarvi solo l’idea che me ne sono fatta. Che è la seguente. Se mai vi è capitato di essere innamorati cotti, da perdere la testa, ecco: richiamate il momento più intenso di questa esperienza, moltiplicatelo all’infinito e per l’eternità. Del resto, l’unica definizione di Dio che abbiamo è quella dell’evangelista Giovanni: «Dio è amore». Secondo me, una beatitudine del genere basterebbe a compensare anche ottanta-novanta anni di una vita delle più disgraziate. Ma il Paradiso non sarebbe tale se non rimettesse, anche, le cose a posto. Infatti, il senso di giustizia che ognuno di noi ha dentro è stato proprio Dio a inculcarcelo, facendoci a Sua immagine e somiglianza. Per far contento me basterebbe un angolino con vista su un altro angolino: quello in cui stanno molti di quelli a cui sono stati intitolati, anche coi miei soldi di contribuente, monumenti e strade. Cresciuto in una famiglia di poliziotti, so bene quali sacrifici ci vogliano per quadrare i conti e far studiare i figli proteggendo le vite e le proprietà altrui, esistenze e proprietà che molti «sbirri» coi loro stipendi possono solo sognare.
So bene, avendo attraversato gli «anni di piombo», cosa vuol dire vedere tuo padre andare al lavoro e sperare ogni giorno che torni a casa la sera sano e salvo. E conosco, anche di persona, molti di quelli che hanno fatto golose carriere insultando mio padre e i suoi colleghi a colpi di «servi del potere capitalista». Oggi i guardiani del capitalismo sono loro, e grassi capitalisti loro stessi, anche coi miei soldi di contribuente e quelli di mio padre. Alcuni, bontà loro, hanno detto «scusate, eravamo giovani e sventati» e, con un’alzata di spalle, hanno continuato imperterriti nel vecchio vizio di dare lezioni agli altri, riveriti e lustrati anche dai preti. Bene, li aspetto tutti nella Valle di Giosafat. In compagnia di tutti quegli ammazzati o rovinati dalle loro «lezioni». Il perdono cristiano, mi dite? Funziona così: prima te lo devono chiedere, poi (se concesso) devono fare penitenza adeguata (e per certe cose non bastano tre avemarie; neanche quattro). Per esempio, nel caso di Leonardo Marino (caso che conosco bene), andò così: sinceramente convertitosi al cattolicesimo, si confessò e il prete gli diede la penitenza di andare a costituirsi. Lo fece, e gli inquirenti, per credergli, vollero sapere tutto, anche i mandanti. Fu condannato a undici anni di carcere come esecutore non materiale. Forse sono pochi, ma quel che conta è che sia stato disposto ad affrontare qualunque pena gli venisse inflitta. Non si paragoni, per cortesia, questa conversione,
autentica, ad altre perché senza espiazione non si dà vero pentimento. Ci si sposa in chiesa e ci si fa perfino ricevere dal Papa, sicuro: il rivoluzionario che ha fatto soldi e carriera, a quarant’anni vuol goderseli; si mette la cravatta e la sua parabola borghese è completa (diceva Del Noce che il Sessantotto fu «spirito borghese allo stato puro»). Beh, si divertano finché è a loro concesso il tempo. Prima o poi scadrà e il Maestro ritirerà il compito. E lo giudicherà: sufficiente o insufficiente; non ci sono altre opzioni.
Anche questo è, deve essere, il Paradiso.
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