Giovanni Paolo II privilegia il primato dell’annuncio, senza dimenticare quello di governo.
E alcuni non cattolici sembrano capire la necessità di un riferimento unitario e personale per il mondo cristiano. Sul Primato, i cristiani sono più avanti di tanti teologi e giuristi.
Intervista a Luigi Accattoli, vaticanista del Corriere della Sera
Come una specie di Diogene cristiano, col lanternino di un buon giornalismo “cerca fatti di Vangelo” perché “non si vergogna del Vangelo” (così i titoli dei libri in cui ha raccolto storie di perdono, di martirio e d’impensabile eroismo cristiano in tutt’ltalia). Come una sorta di sobrio apologeta fa da vent’anni il vaticanista al Corriere della Sera: cercando di contrastare, col puntuale riscontro del cronista, i luoghi comuni del più importante quotidiano italiano sulla Chiesa-centro-di-potere, sui cattolici sempre “pro” o “contro” questo e quello, sul Papa dipinto di volta in volta “di destra” o “di sinistra”…
Già: il Papa. Luigi Accattoli, classe 1943, 5 figli, ha seguito tutti i viaggi di Giovanni Paolo II ed è divenuto uno dei suoi più competenti biografi; ha scritto almeno 3 o 4 volumi su di lui, in uno dei quali ha annotato: “Con la sua libertà di parola, Giovanni Paolo II ci ha mostrato come l’autorità più antica che vi sia al mondo (il papato) possa parlare oggi… Egli ci ha dato un’idea di quale potrebbe essere, in futuro, la funzione davvero ecumenica di un Papa che rivendichi solo per il Vangelo il suo Primato rispetto a ogni altra istanza cristiana per farlo risuonare sul mondo a nome di tutti”.
Allora, Accattoli: possiamo sostenere che con Giovanni Paolo II il “primato petrino” ha assunto una funzione inedita?
“Possiamo dire che Giovanni Paolo II ha spostato il baricentro del “ministero petrino” dalla funzione di governo a quella di annuncio; senza ovviamente dimenticare la prima. Ogni Papa realizza una personale combinazione delle due funzioni, e con questo pontificato abbiamo visto una netta prevalenza della seconda. Il primato viene interpretato in ordine alla missione, all’evangelizzazione, non al potere gerarchico”.
Che cosa intende dire?
“Beh, due secoli fa i Papi semplicemente “governavano” la Chiesa: raramente tenevano discorsi diretti al “mondo”, parlavano tutt’al più in concistoro e prendevano decisioni interne. Dalla metà del Settecento invece cominciano a parlare e a scrivere encicliche, diventano annunciatori diretti. Direi che questa funzione si accentua a partire da Pio IX e sempre più in questo secolo. Giovanni Paolo II si aggiunge a questa crescita facendosi missionario fino ai confini della terra. Con lui i viaggi sono diventati un elemento ordinario del magistero petrino e contemporaneamente si è registrata una contrazione dell’impegno personale del Papa nel governo spicciolo di Curia. Non potendo fare tutto, Wojtyla ha scelto di privilegiare il messaggio. Questa è una novità molto forte e probabilmente destinata a durare, perché in futuro si predicherà sempre più il Vangelo come primo annuncio in una società che s’allontana dalla tradizione cristiana. Il ministero petrino, insomma, torna alle origini: a Pietro, l’apostolo che porta il Vangelo ai confini del mondo”.
È curioso che proprio questo Papa, giudicato all’inizio come un “uomo forte” venuto dall’Est, sia poi diventato un testimone che galvanizza le folle più che un governante dal pugno di ferro…
“No, per me non è strano. È proprio dalla sua biografia, infatti, che viene lo spunto missionario. Karol Wojtyla è cresciuto in una condizione difficile, limitata per la predicazione, e pertanto si preoccupa che si sfruttino pienamente le possibilità dell’annuncio. E dà l’esempio”.
Di solito il primato papale è considerato un ostacolo al dialogo ecumenico. E se invece fosse una possibilità in più?
“Per il momento oggettivamente è ancora sentito come una difficoltà dalle altre confessioni cristiane. Ma soggettivamente cresce la consapevolezza, nei protagonisti del dialogo, dell’utilità o addirittura della necessità di un punto di riferimento unitario e personale nella comunione tra le Chiese: non tutto può essere ridotto ad organismi collegiali o ad assemblee elettive, ci vuole anche qualcuno che possa parlare e agire in persona dell’intera Chiesa. La traduzione giuridica, normativa di questa intuizione è ancora lontana, però di fatto il primato del Papa è sempre più esercitato in tutta la cristianità”.
Qualche esempio?
“Ho presente certe riviste ortodosse e alcuni documenti ecumenici in cui è esposta l’idea di un Papa “portavoce” di tutti i cristiani, utile per superare le divisioni nazionalistiche tra le Chiese o come punto di vista al di là degli interessi particolari. Seguendo i viaggi papali ho notato una buona accoglienza popolare tra gli ortodossi in Libano, Romania e Geòrgia; a Bucarest la gente gridava: “Unitade, unitade…”. Nel mondo protestante le cose sono più facili, soprattutto in certe nazioni come Canada, Australia o Nuova Zelanda (meno in Europa, dove si sente ancora il segno delle rivalità storiche). Ricordo molto bene il calore di assemblee e liturgie ecumeniche dove Giovanni Paolo II poteva dare la benedizione senza provocare nessuno scandalo tra i presenti. Penso che, con altri viaggi e grazie a nuove esperienze di ospitalità, quest’accettazione della figura papale crescerà dappertutto, forse più in fretta di quanto non aumenterà l’accordo tra i teologi e i giuristi”.
Quindi un “primato ecumenico” di fatto c’è già.
“Sì, di fatto questa funzione comune del Papa di fronte al mondo si svolge già. Giovanni Paolo II ha già parlato alcune volte a nome di tutti i cristiani, anche se non era delegato da nessuno. È avvenuto per esempio durante la guerra del Golfo o quella del Kosovo e sulla questione del debito internazionale. Wojtyla diceva le medesime cose del Consiglio ecumenico delle Chiese, ma con una capacità di farsi ascoltare incomparabilmente maggiore; e tutti si sentivano rappresentati da lui. Di più: una volta, durante un incontro ecumenico, ha parlato esplicitamente “in nome della Chiesa cattolica e – così diceva – forse a nome di tutti….”. Lo stesso è accaduto davanti al Muro del Pianto: lì oggettivamente il Papa, di fronte agli ebrei, rappresentava tutto il mondo cristiano. O accade ogni volta che il Pontefice fa un discorso all’Onu: la maggioranza di quelli che l’ascoltano, infatti, non sono in grado di distinguere se parla un cattolico o un protestante, ma lo considera semplicemente come il maggior esponente del mondo cristiano”.
Ma il senso del primato oggi, così come lo interpreta il Papa, è quello del “primus inter pares”, oppure lei individua novità?
”No, nelle parole o nelle formule non trovo novità. Ce ne sono invece parecchie nei gesti. Ricordo la liturgia ecumenica a Canterbury insieme al Primate anglicano: due sedie uguali, leggermente rivolte al centro dell’assemblea, avendo tutt’e due sopra di sé il trono col libro dei Vangeli. E così in tanti incontri ecumenici, dove il Papa si presenta come un ospite senza pretendere una distinzione di posizione. E questa capacità di scendere dal trono è sempre ben apprezzata”.
Già. Ma poi non si perde l’idea stessa di primato?
“Certamente si ridimensiona. Però l’intenzione è di riportare il primato alle giuste proporzioni, rispetto all’ingigantimento cui la storia degli ultimi secoli l’aveva condotto, non certo di perderlo. Salvare insomma la sostanza vera del ministero petrino, liberandolo dall’ingrandimento un po’ rigido e burocratico che lo aveva appesantito. È il tema della Ut unum sint, il documento più coraggioso del pontificato sotto questo punto di vista”.