Lo Stato non deve distruggere né assorbire i corpi intermedi della società. Piuttosto ha il dovere di sostenerli. Il principio di sussidiarietà, punto fondamentale della dottrina sociale della Chiesa.
La dottrina sociale della Chiesa è un corpo dottrinale “aperto”, cioè continuamente in via di sviluppo e destinato a chiudersi alla fine dei tempi. Essa si viene costituendo nel corso della storia a opera del Magistero e sulla base dell'elaborazione delle scienze umane, soprattutto in risposta alle sollecitazioni delle diverse società umane. Tale sviluppo è “sviluppo di qualcosa”, cioè parte da principi di riflessione, che forniscono di volta in volta criteri di giudizio e direttive d'azione. Essa è ricostruita ed esposta sinteticamente nel Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato da Papa Giovanni Paolo II nel 1992 come strumento valido e legittimo della comunione ecclesiale e come norma sicura per l'insegnamento della fede, per la catechesi, cioè per l'attività attraverso la quale la Chiesa, in tutte le sue articolazioni, proclama — fra l'altro — i “diritti dell'uomo” senza anteporli ai “diritti di Dio”, dei quali si deve riconoscere e rispettare il primato, non solo come fonti di precisi doveri corrispondenti, ma anche come fondamenta e garanzie dei primi. I principi di riflessione della dottrina sociale naturale e cristiana sono costituiti dal primato della persona umana, dal principio di sussidiarietà e da quello di solidarietà.
Quanto all'uomo, se ne afferma la naturale socialità e si indica il fondamento della sua grandezza nell'esser stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Quindi si definiscono i principi regolatori dei suoi rapporti con gli altri. Il principio di sussidiarietà trova la formulazione più sintetica nell'enciclica Quadragesimo anno, pubblicata da Papa Pio XI nel 1931, in occasione del quarantesimo anniversario dell'enciclica Rerum novarum, di Papa Leone XIII. “[…] quando parliamo di riforma delle istituzioni, pensiamo primieramente allo Stato, non perché dall'opera sua si debba aspettare tutta la salvezza, ma perché, per il vizio dell'individualismo […] le cose si trovano ridotte a tal punto che, abbattuta e quasi estinta l'antica ricca forma di vita sociale, svoltasi un tempo mediante un complesso di associazioni diverse, restano di fronte quasi soli gli individui e lo Stato. E siffatta deformazione dell'ordine sociale reca non piccolo danno allo Stato medesimo, sul quale vengono a ricadere tutti i pesi, che quelle distrutte corporazioni non possono più portare, onde si trova oppresso da una infinità di carichi e di affari”. Dopo aver reso conto della ragione del suo intervento, cioè l'ipertrofia dello Stato, frutto di una deriva plurisecolare, il Pontefice riconosce che “è vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole. Ma — sentenzia — deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla comunità, cosi è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l'oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle”.
Ammesso il mutamento delle circostanze, di cui tenere realisticamente conto, ed enunciato il principio da non dimenticare in ogni circostanza, per quanto nuova, se ne trae una logica conseguenza e viene data una preziosa indicazione: “[…] è necessario che l'autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa solo può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo che quanto più perfettamente sarà mantenuto l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione suppletiva dell'attività sociale, tanto più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso”. Dunque, in base al principio di sussidiarietà, 'uomo deve esser messo in condizioni di realizzare, e all'uomo si deve domandare che realizzi, tutte le proprie potenzialità prima di auspicare e di richiedere l'intervento di altri uomini a soddisfare le sue esigenze naturali — cioè derivanti dalla sua natura sociale, che lo rende strutturalmente bisognoso dell'aiuto di altri —, sia a integrare le deficienze dovute alle conseguenze del peccato originale. Questo rapporto fra il singolo e la società come insieme di altri uomini è modello anche per le relazioni fra i diversi corpi sociali intermedi, a partire dalla società matrimoniale, da quella familiare e oltre, fino alla comunità delle nazioni, e Papa Pio XII afferma anche un suo valore all'interno della vita della Chiesa, che pure — benché di un genere particolare — è una società.
BIBLIOGRAFIA
Paolo Magagnotti (a cura di), II principio di sussidiarietà nella dottrina sociale della Chiesa. Testi integrali della Rerum novarum e dei documenti pontifici pubblicati per le ricorrenze dell'enciclica leonina, con presentazione di padre Raimondo Spiazzi O.P., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1991.