Che idea aveva il mondo classico, greco e romano, del comune senso del pudore? Affinità e divergenze con i tempi odierni.
Per Cicerone vale la legge naturale.
Nella mentalità e nel linguaggio correnti quello che definiamo “comune senso del pudore” riguarda principalmente il comportamento sessuale e, in genere, morale degli individui: quindi adulterio, prostituzione, omosessualità, e altri aspetti che meno immediatamente vengono in mente, come l’abbigliamento sconveniente, il vocabolario usato, la ricerca del successo, del guadagno, della notorietà con mezzi che non sono leciti e corretti. Un elemento che condiziona il giudizio sul pudore è dato dal fatto che il comportamento per il quale si viene giudicati sia reso di dominio pubblico: una maggiore tolleranza e un giudizio meno severo sono riservati a chi, pur non essendo esente da critiche sul proprio comportamento, non lo sbandiera ai quattro venti, cioè non “dà scandalo” (espressione sempre meno frequente). Oggi, poi, il “comune senso del pudore” richiama il comportamento femminile prima ancora di quello maschile, ma soprattutto è difficile oggi parlare di “comune” senso del pudore, perché sembra quasi che ognuno abbia una propria unità di misura del pudore, un mero soggettivismo, cioè relativismo: cioè non esiste più, di fatto, un senso del pudore che sia condiviso; o, meglio, questo “senso comune” è accettato solo da chi riconosce ancora il pudore come una virtù.
Questi aspetti “fenomenologici” del pudore e le premesse di un giudizio su di esso sono oggi assai diversi dal passato, ma nel mondo antico esisteva – e non per convenzione – un comune senso del pudore intorno ad alcuni valori nei quali tutti si riconoscevano, come – e soprattutto – la famiglia e, per i Romani, anche lo Stato. Con la necessaria precisazione che la condizione della donna nel mondo antico, prevalentemente maschilista, era diversa da quella odierna (non sempre peggiore); che tanto per gli uomini quanto per le donne certi obblighi e divieti – quindi il giudizio morale conseguente – erano, questi sì, spesso frutto di convenzione e, in definitiva, legati al ceto sociale, e che, infine, la stessa condizione della donna subì consistenti modifiche già nell’antichità.
Il mondo classico, sia greco che romano, era fortemente restrittivo verso l’adulterio, a tutela della famiglia, vera istituzione portante nel mondo antico e nucleo di aggregazione di altre realtà, e tollerante – talvolta addirittura incoraggiante – verso la prostituzione, principalmente femminile, spesso col medesimo fine (si credeva in tal modo di tutelare la sicurezza e il buon nome delle donne maritate; in Grecia, esisteva anche una prostituzione “sacra”, esercitata cioè “in favore” di qualche divinità presso un tempio); sostanzialmente indifferente verso l’omosessualità, sebbene le fonti romane ricordino in più di un’occasione l’atteggiamento critico verso di essa sia in età repubblicana che in età imperiale (il noto vitium di Nerone).
Ad Atene una legge antica non considerava punibile un uomo che ne avesse ucciso un altro per aver avuto rapporti sessuali con la propria moglie, figlia, madre, sorella o anche con una concubina dalla quale avesse avuto un figlio: il delitto d’onore, come si vede, viene da lontano! Ma è probabile che esistesse anche una legge repressiva degli adulterii che prevedeva il processo e persino la giustizia sommaria per gli adulteri. Le mogli adultere erano ripudiate ed escluse dai sacrifici; le donne nubili, le figlie e le sorelle che avessero avuto rapporti prematrimoniali potevano essere costrette in schiavitù dall’uomo che ne aveva la tutela.
Come ad Atene così in altri stati del mondo antico l’uccisione di un adultero non era perseguita, mentre in un tempo successivo furono contemplati dalla legge riscatti, pene pecuniarie e la pubblica umiliazione per chi si macchiava di questa colpa. D’altra parte – ciò costituisce un singolare ma implicito riconoscimento dell’importanza del legame familiare e della discendenza – a Sparta si ha notizia del costume di condividere la moglie con amici per finalità procreative.
La tradizione romana attribuisce a padri e mariti grande severità nel punire la condotta moralmente scorretta di figlie e mogli, e la tradizione, certamente frutto della leggenda ma non per questo meno significativa, attribuisce ad un’offesa arrecata alla pudicitia di una virtuosa matrona, Lucrezia – che per questo motivo si sarebbe data la morte – la fine della monarchia a Roma, e un episodio analogo provocò la fine del cosiddetto decemvirato legislativo. Stuprum era detta la violenza verso donne sposate o nubili, mentre con adulterium venivano indicati i rapporti sessuali intercorsi fra una donna sposata ed un uomo che non ne fosse il marito.
Augusto fece votare una legge sul matrimonio e una sulla repressione degli adulterii, entrambe destinate a incoraggiare e tutelare la famiglia. Non erano consentiti rapporti fuori del matrimonio di una o con una donna libera di rango elevato; tale reato doveva essere accertato e punito da una corte speciale. La legge, che rispondeva ad esigenze di ordine morale sentite dai più come naturali (basti ricordare il pensiero e la vita esemplare di Musonio Rufo, esaltato dagli Autori cristiani), limitò molto i casi nei quali era considerato lecito l’omicidio da parte del padre o del marito della donna coinvolta e prevedeva come pena più frequente per gli adulteri la relegatio in qualche isola (pena che toccò anche al poeta Ovidio, peraltro implicato anche in vicende politiche, e alla figlia stessa di Augusto, Giulia), e la parziale confisca della proprietà e della dote. Nel Carme secolare Orazio, facendosi portavoce del programma di restaurazione etico-religiosa avviato da Augusto, fa ritornare la Fides, l’Honor, il Pudor che erano stati cacciati dallo spergiuro, dalla frode, dall’adulterio, dall’impudicizia, come leggiamo nella terza e nella sesta Ode “romana” (Carm. III 3 e 6), dove Orazio rimprovera ai Romani la degenerazione dei costumi e l’abbandono delle antiche virtù che li avevano resi graditi agli dei. Le pene furono rese più severe da Costantino, che introdusse la pena capitale per gli adulteri ma limitò al marito o ai parenti della moglie il diritto di accusa.
Già dal II secolo d.C., al tempo di Antonino Pio, venne riconosciuto anche alla moglie il diritto di divorziare dal marito adultero.
Alle leggi in materia di adulterio, visto come la minaccia più grave alla stabilità della famiglia e quindi alla stabilità di una società ordinata e di uno Stato solidamente fondato, fanno eco le parole di Cicerone, il quale, dopo aver ricordato che ciò che avvicina di più l’uomo a Dio è la ragione (Sulle leggi I 7, 22), raccomanda ai capi di stato di essere essi stessi di esempio, come leggi viventi, per i cittadini (Sullo stato I 34, 52), rispettando la legge naturale che è stata posta nel cuore di ogni uomo da Dio per comandare ciò che va fatto e proibire il contrario (Sulle leggi I 6, 18), e con parole singolarmente moderne e addirittura attuali afferma che «se la volontà del popolo, le decisioni del senato, le sentenze dei giudici fossero prese con l’unico criterio della volontà della maggioranza, si potrebbero legalizzare, paradossalmente, il latrocinio, l’adulterio, la falsificazione dei testamenti» (Sulle leggi I 16, 43) concludendo che «bisogna sempre vigilare perché nello stato i più non contino di più (ne plurimum valeant plurimi)» (Sullo stato II 22, 39), cioè il criterio della maggioranza non è il vero fondamento della giustizia: e uno dei pericoli, ipotetici ma comunque possibili, è che diventi legittimo commettere adulterio, se così volesse la maggioranza.
Ricorda
«(…) Il pudore preserva l’intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. È ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione».
(Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2521).
Bibliografia
Ugo Enrico Paoli, La donna greca nell’antichità, Firenze 1953.
Ugo Enrico Paoli, Vita romana, Firenze 1968.
Jérome Carcopino, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero, Bari 1971.
TIMONE – N. 45 – ANNO VII – Luglio-Agosto 2005 – pag. 32-33