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13.12.2024

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Il rischio Corea
31 Gennaio 2014

Il rischio Corea

 


La minaccia del Nord nasce da un feroce regime comunista, che allo stalinismo ha unito una dottrina nazionalista e isolazionista. E con il ricatto dei missili riesce a sopravvivere. Anche grazie ai timori dell’Occidente

Per essere un “regno eremita”, come è stato definito, è fin troppo presente sulla ribalta internazionale. Quello della Corea del Nord è, in effetti, un paradosso vivente: un paese che sceglie l’autoisolamento, taglia tutti i ponti con il resto del mondo, ma poi diventa una costante minaccia per la comunità internazionale.
Bisognerebbe anche dire, per completezza, che è una minaccia anche per il suo popolo, tanto che qualcuno ha definito la Corea del Nord il “paese lager”, dove tutti sono prigionieri di un regime comunista che, alla violenza e alla ferocia tipica del socialismo reale, unisce una dottrina nazionalista estrema elaborata dal Il rischio Corea La minaccia del Nord nasce da un feroce regime comunista, che allo stalinismo ha unito una dottrina nazionalista e isolazionista. E con il ricatto dei missili riesce a sopravvivere. Anche grazie ai timori dell’Occidente “caro leader” Kim Il Sung: la juché, ovvero autosufficienza.
A Kim Il Sung, padre del regime nord-coreano, viene anche attribuito lo slogan «L’uomo è il padrone di ogni cosa e decide ogni cosa», concetto che in ogni cosa ha applicato alla lettera, peraltro identificando l’uomo con se stesso. Per decenni nulla è trapelato su quanto accadesse all’interno del Paese, ampiamente sostenuto da Cina popolare e Unione Sovietica, anche loro non certo campioni di trasparenza. Si tratta di una situazione favorita dal conflitto tra potenze occidentali e blocco comunista, che nella penisola coreana si sono scontrate direttamente in una guerra (1950-1953) che fece temere il precipitare in una Terza guerra mondiale a pochi anni dalla fine della Seconda. Alla fine il peggio fu scongiurato, ma la Corea rimase divisa a metà, sulla linea del 38° parallelo, tra un Nord comunista e un Sud filo-occidentale. E le strade intraprese sono state opposte. Il regime autoritario del Sud approfittava dell’“ombrello” militare statunitense per promuovere un grande piano di alfabetizzazione ed istruzione e al contempo sviluppare un piano industriale che nel giro di pochi decenni ha portato fuori il paese dal sottosviluppo e ne ha favorito l’evoluzione in una democrazia. Il Nord, invece, sceglieva la strada dell’economia assistita: sostenuta dagli “amici” comunisti, mentre massicci investimenti venivano fatti nell’apparato militare (l’esercito nordcoreano, con 1.2 milioni di militari, è il più grande al mondo in rapporto alla popolazione) nell’attesa un giorno di poter riconquistare tutta la penisola.
Per valutare appieno la follia di questo regime e il crimine nei confronti del proprio popolo, bisogna anche ricordare che all’indomani della guerra, il Nord partiva in posizione privilegiata rispetto al Sud. Tradizionalmente, infatti, il Nord era la parte ricca del paese, tanto che accoglieva tantissimi immigrati dal Sud: ben 7 milioni di sudcoreani rimasero intrappolati nel Nord quando si chiuse ermeticamente il confine al 38° parallelo. Il motivo di tale ricchezza stava nel fatto che a partire dagli anni ’20 i giapponesi, che allora colonizzavano la penisola, trasferirono nella Corea del Nord una parte importante dell’industria pesante, che poi il regime comunista si trovò in eredità. Questo è anche il motivo per cui la Corea del Nord si è poi trovata avvantaggiata nell’industria militare pesante e nello sviluppo di armi di distruzione di massa.
Il vantaggio del Nord sul Sud era tale che, dal punto di vista economico, durò fino all’inizio degli anni ’60. Ma le cose non potevano certo continuare all’infinito e mentre la Corea del Sud usciva dal sottosviluppo e addirittura imponeva sul mercato mondiale i propri marchi, dall’altra parte del confine le risorse diminuivano e soprattutto andavano a soddisfare quasi esclusivamente la casta dei militari e dei membri del partito. Ma è stato il crollo dell’impero sovietico a far precipitare la situazione nel “regno eremita”, perché è venuta improvvisamente a mancare la principale fonte di sostentamento e la Corea del Nord è passata velocemente dalla povertà alla miseria e poi letteralmente alla fame: sono bastati 2 anni climaticamente avversi per provocare a metà degli anni ’90 una carestia che ha causato almeno 2 milioni di morti. Alcune stime poi dicono che in totale negli ultimi venti anni i morti per fame sarebbero 4 milioni. È l’ennesimo caso di un regime comunista che pianifica lo sterminio del proprio popolo. E lo dimostra anche il fatto che la situazione economica non ha provocato alcun ravvedimento da parte del regime che, anzi, ha aumentato la sua aggressività all’esterno per mantenere il controllo della situazione all’interno. E paradossalmente hanno giocato a suo favore anche le paure dell’Occidente, desideroso di far arrivare aiuti alimentari alla Corea del Nord pur di evitare l’implosione del regime. La paura era – ed è – soprattutto economica e sociale, perché dopo il crollo della Germania Orientale e la conseguente riunificazione con l’Ovest, anche in Corea del Sud – oltre che a Tokyo e Washington – si sono cominciati a fare i conti sui costi di un crollo improvviso del regime nord-coreano e ci si è resi conto che sarebbe stata una tragedia per tutta la regione, sia dal punto di vista umanitario – con milioni di profughi – sia economico.
Ecco dunque il balletto che va avanti da 15 anni: minacce militari della Corea del Nord per alzare il prezzo e ottenere quindi più aiuti economici, e offerte di aiuti e finanziamenti da parte dell’Occidente in cambio della rinuncia a proseguire nel programma nucleare. Ma l’ascesa al potere del giovane Kim Jong Un, nipote di Kim Il Sung (e qui alla tradizione comunista si è unita anche la successione dinastica tipica di tante culture orientali) sembra aver introdotto un nuovo elemento di incertezza, anzitutto perché egli – o chi lo manovra dall’interno del regime – sembra intenzionato a portare la Juché all’estremo, sganciandosi anche dall’ultimo suo protettore, la Cina. Che non per niente ha rafforzato la presenza militare ai confine della Corea del Nord soprattutto per bloccare un’eventuale ondata di profughi causata dall’implosione del regime.
Pechino resta ancora la carta decisiva per incidere sulle decisioni di Pyongyang ma anche per la Cina la situazione è cambiata.
Finora aveva sempre usato la Corea del Nord in chiave strategica anti-americana, e comunque puntando a tenere più limitata possibile la presenza, soprattutto militare, degli Stati Uniti nella regione Asia-Pacifico. L’innalzamento della tensione provocato dalle minacce di Kim Jong Un ha invece prodotto l’effetto di concentrare di nuovo le risorse diplomatiche e militari di Washington nella regione. E ora anche la Cina si trova davanti al solito dilemma: per riportare la situazione sotto controllo è meglio assecondare Pyongyang o fare la voce grossa tagliando il sostegno economico? L’esperienza purtroppo suggerisce che un tiranno messo con le spalle al muro non di rado sceglie il «tanto peggio tanto meglio ».

 

 

 

 

IL TIMONE  N. 123 – ANNO XV – Maggio 2013 – pag. 18 – 19

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