La paternità è un attributo divino che ogni padre deve cercare di riprodurre agendo in modo più possibile simile a quello di Dio Padre.
Ma oggi è in corso la demolizione di questo ruolo.
Un errore semplice da commettere, nell’esaminare le cose di quaggiù, è quello di prenderle a misura delle cose del cielo. È la nostra natura umana che ci induce in questa semplificazione: è immediato ricorrere a ciò che conosciamo per immaginare ciò che «nessun occhio vide”. Così quando pensiamo a Dio Padre ce lo raffiguriamo come un buon padre di famiglia e cerchiamo di attribuirgli tutte le qualità, ancorché elevate all’ennesima potenza, che riscontriamo in persone di eccezionali valori. La verità è che l’ottica deve essere completamente ribaltata: Dio non è come un buon padre di famiglia, ma il genitore, per essere buono, deve prendere esempio da Dio Padre. San Paolo lo chiarisce con inconfutabile semplicità: «io piego le ginocchia davanti al Padre dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome” (Ef, 3,14-15).
La paternità è dunque attributo divino che ogni padre deve cercare di riprodurre agendo in modo più possibile simile a quello di Dio Padre. È da Lui che dobbiamo imparare il senso e la finalità del nostro essere padri quaggiù e apprendere anche come agire per il bene dei nostri figli.
La figura del padre oggi è oggetto di molte discussioni e di indubbi attacchi: non è questa la sede per parlare dei tentativi in atto per distruggere la famiglia e in particolare la paternità, ma ciò che ci interessa analizzare è come si stia cercando di demolire l’aspetto autorevole della figura paterna, come icona terrena della paternità di Dio. La deriva è, come spesso capita quando il diavolo ci mette la coda, apparentemente dolce e segno di progresso: che cosa c’è di più tenero di un padre che si prende cura dei propri pargoli cambiando pannolini, nutrendoli, assecondando
le loro passioni? Chi non si commuove davanti ad un padre, magari avanti negli anni, che porta i propri figli ai giardinetti per giocare con loro?
Chiariamo subito per evitare fraintendimenti: non c’è nulla di male in tutto questo, purché questo non rappresenti il tutto delle azioni e del ruolo del padre.
Gli specialisti parlano di una mammizzazione del padre: il padre “mammo” si specchia nella madre e ne riproduce i compiti, diventando per certi versi del tutto identico a lei. Se è più che doveroso e benemerito il fatto che il padre di oggi si faccia carico di incombenze essenziali nella vita dei figli, e che sia in grado di offrire alla moglie un supporto non solo affettivo ma anche fattivo, è però necessario affermare che questo non esaurisce il ruolo paterno.
La Lettera agli Ebrei suggerisce una immagine differente del Padre quando, a proposito del Figlio, dice: «nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,7-8). La figura paterna, che qui si intravede sullo sfondo, appare più come quella di un austero e inflessibile giudice che insegna al figlio l’obbedienza attraverso la sofferenza. In effetti sembra persino un errore la prima parte di questa frase: come sarebbe a dire che Gesù fu esaudito quando pregava «allontana da me questo calice» se ha comunque dovuto affrontare la croce?
Il buon padre non dà al figlio ciò che il figlio vuole, ma ciò di cui ha bisogno: in questo lo esaudisce, nell’aiutarlo a crescere, mediante l’obbedienza e la sofferenza.
Lo psicoterapeuta Franco Poterzio riassume il ruolo del padre con una lapidaria frase: «la madre ti dice che tutto il mondo sei tu, il padre che tu non sei tutto il mondo». Rinforza il concetto un altro studioso molto noto, Claudio Risé, che nel suo bellissimo saggio Il padre: l’assente inaccettabile precisa che il compito primario del padre è quello di infliggere la ferita, di risvegliare l’animo egocentrico del figlio, cullato dall’amore materno, per mostrargli la durezza della vita e il cammino da seguire.
Tutto questo si potrebbe riassumere nella parola autorità, termine, questo, che solo ultimamente sta riacquistando una certa buona fama, dopo anni nei quali appariva come una spregevole qualifica. Il Sessantotto, volendo colpire, non senza qualche ragione, un certo autoritarismo manieristico e violento, ha finito, come spesso capita a chi non possiede che una parte della verità, per trascinare nel fango e nel disprezzo il giusto mezzo, l’autorità appunto, che si contrappone sia all’autoritarismo sia al permissivismo. Mi sembra che tutte le virtù che riguardano l’uomo siano l’esatta applicazione di quella che io chiamo la bilancia di san Paolo: sempre nella Lettera agli Efesini Paolo suggerisce che dobbiamo perseguire la santità veritatem facientes in carite ovvero «vivendo secondo verità nella carità». Ora spesso capita che si finisca per privilegiare uno dei due aspetti: il permissivismo in un certo senso esalta la carità negando la verità, mentre l’autoritarismo fa il contrario. La virtù è l’unica strada per tenere in equilibrio i due piatti di questa bilancia: fare il bene dei figli secondo verità.
Dio Padre è al contempo Colui che esige obbedienza e che, come nella parabola del figliol prodigo, corre incontro al figlio pentito e mostra una delicatezza ed una sensibilità profondissime. Così il padre terreno deve essere in grado di esigere obbedienza, di guidare i figli verso il loro bene senza cedere ad una eccessiva tenerezza, e al contempo mostrare una delicatezza che si manifesta nell’attenzione per loro, nella capacità di comprendere che cosa effettivamente serva loro e di saperlo proporre nel modo più adeguato.
Il padre deve guidare con autorevolezza, che è il vero volto della sincera autorità. Essere autorevoli come lo è il Padre: è mai possibile? È la strada che Gesù ci invita a percorrere: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Più siamo santi, più siamo buoni padri per i nostri figli.
Solo proponendo un esempio che, per quanto imperfetto, rimanda a quello del Padre, saremo credibili quando proporremo ai nostri figli una strada che porta alla felicità e che è fatta soprattutto di doveri e di sacrifici: questo approccio, di riferirci cioè al Padre Celeste, è l’unico modo che ci permette di squadrare il nostro animo e capire veramente chi siamo, per poter prendere possesso di noi ed offrirci in un sacrifico di soave odore a Colui che ci darà il premio finale.
RICORDA
«”Se quello che i mortali desiderano potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre”: è Telemaco, il figlio di Ulisse a parlare cosi, nell’Odissea. Egli è una delle prime figure che nelle grandi narrazioni dell’umanità testimonia dell’angoscia del figlio senza padre. Dopo di lui, ne vennero molti altri. Ed oggi sono legioni».
(Claudio Risé, Il Padre l’assente inaccettabile, San Paolo, 2003, p. 7).
BIBLIOGRAFIA
Claudio Risé, Il Padre l’assente inaccettabile, San Paolo, 2003.
Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri, 2000.
Jaques Arènes, C’è ancora un padre in casa?, Edizioni Scientifiche Magi, 2000.
Gustavo Pietropolli Charmet, Un nuovo padre, Oscar Mondatori, 1995.
Simona Argentieri, Il padre materno da san Giuseppe ai nuovi mammi, Meltemi, 1999.
IL TIMONE – N. 54 – ANNO VIII – Giugno 2006 – pag. 52 – 53