La recente crisi politica ha messo in evidenza, tra le altre cose, che spesso facciamo dipendere la nostra consistenza di uomini dal successo o meno di uno schieramento politico. Ma è il senso della nostra vita che, al contrario, deve illuminare la politica
La recente crisi politica, legata alla grave situazione economica, ha portato alla luce alcuni nodi fondamentali della nostra società e del nostro modo di vivere la politica, sui quali è bene riflettere.
Certamente abbiamo toccato con mano l’inadeguatezza dell’intera classe politica, ma si dovrebbe allargare il giudizio all’intera classe dirigente. Abbiamo visto l’incapacità del governo di affrontare con chiarezza e trasparenza una situazione economica critica, e le quattro diverse manovre economiche annunciate nel giro di poco più di un mese la scorsa estate ne sono state un esempio sconcertante; ma abbiamo visto un’opposizione ancora peggiore, giocare al “tanto peggio, tanto meglio” per far fuori l’odiato Presidente del Consiglio, perseguendo una politica di discredito dell’Italia di cui pagheremo le conseguenze a lungo; e sulla stessa “politica” si sono gettate alcune frange della magistratura e della stampa, che hanno contribuito in maniera decisiva a creare un’atmosfera insostenibile; per non parlare poi dell’opportunismo della dirigenza di Confindustria, scesa in campo – ma solo quando il destino era già segnato – per dare il colpo di grazia al governo Berlusconi.
Davanti a una situazione oggettiva di crisi, probabilmente la peggiore dal dopoguerra, ad apparire evidente è lo spettacolo di divisione e di disgregazione, in cui ognuno sembra perseguire i propri interessi a scapito degli altri. L’ampia convergenza del Parlamento intorno a un governo tecnico, in questa condizione non sembra affatto un sussulto di responsabilità o una ritrovata coesione per il bene del Paese, ma piuttosto la somma di alcuni fattori, uno più preoccupante dell’altro: un ricatto dei poteri forti europei, radunati tra la Banca Centrale Europea e la Commissione, che hanno praticamente commissariato il nostro Paese dopo avere indicato le misure da prendere; la vigliaccheria di quelle forze di sinistra che hanno profuso tutte le proprie energie per cacciare Berlusconi dal governo, ma che hanno paura di una possibile vittoria alle elezioni perché dovrebbero gestire loro una crisi difficile; il bieco interesse personale di quasi un terzo del parlamento: sono infatti trecento in questa legislatura i parlamentari di prima nomina che, in base alle nuove leggi, non avrebbero più diritto al vitalizio se la legislatura finisse anzitempo (evidentemente molti di loro voterebbero anche un eventuale governo Belzebù pur di garantirsi un futuro agiato).
Aldilà delle preferenze politiche che abbiamo, è difficile non farsi una domanda su questa frammentazione e imbarbarimento della vita comune (da questo punto di vista le volgari manifestazioni di piazza per le dimissioni di Berlusconi hanno dimostrato tutto lo squallore del momento). E come non vedere che gli ultimi sessanta anni sono stati caratterizzati da una progressiva secolarizzazione che ha aperto la strada all’individualismo più radicale? Anche se nel dopoguerra c’era una profonda divisione ideologica, c’erano tuttavia alcuni valori comuni indiscutibili (lavoro, famiglia, in gran parte anche la vita) che erano comunque eredità della civiltà cristiana. Il punto è che quando si toglie Dio dall’orizzonte, non esiste più nulla che possa farci sentire – se non fratelli – almeno parte di uno stesso popolo e di uno stesso destino.
Un secondo aspetto riguarda il ricorso a un governo cosiddetto “tecnico”. Su La Bussola Quotidiana (www.labussolaquotidiana.it ) abbiamo criticato molto questo esito della crisi soprattutto perché il tutto suona come una sospensione della democrazia, un esproprio della sovranità popolare. Anche se un governo perde i numeri per poter andare avanti, è agli elettori che spetta decidere su chi dovrà sostituirlo. È un ragionamento fin troppo semplice. Ma è bene sottolineare anche un altro aspetto, culturale, che ha permesso che l’idea di un governo “tecnico” non trovasse alcuna resistenza significativa: ovvero, l’idea che la tecnica sia neutra. C’è l’idea che un economista funzioni come un idraulico o un elettricista: qualcosa si è rotto, si chiama l’esperto per aggiustarlo, al quale ovviamente non chiederemmo di presentarci il programma dei lavori, che sono sostanzialmente obbligati. Prova ne è che il consenso delle forze politiche alla nomina di Mario Monti a capo del governo è stato deciso prima che lo stesso Monti dicesse una sola parola sulle cose che ha in mente di fare. Nessun programma su cui ricevere la fiducia, basta sapere che è un buon “tecnico”. Ma questa è una grande menzogna: l’economia non è affatto neutra né è una scienza esatta. Ogni scelta economica nasce da una visione dell’uomo, del lavoro, della società e perfino di Dio. Come dice papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate: «La tecnica è l’aspetto oggettivo dell’agire umano, la cui origine e ragion d’essere sta nell’elemento soggettivo: l’uomo che opera», «per questo motivo la tecnica non è mai solo tecnica». Essa esprime sempre anche aspirazioni, tensioni dell’animo, orientamenti culturali. Oggi, in particolare, dice ancora il Papa, «il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, che esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità».
C’è infine un ultimo aspetto da sottolineare, forse il più importante, perché riguarda il nostro atteggiamento davanti alla politica. Spesso infatti viviamo i diversi eventi politici in modo totalizzante: immaginiamo un Paradiso in terra prossimo venturo se vince il partito cui teniamo o tendiamo alla disperazione se vincono gli altri. È certo che la politica agita passioni, ed è normale, ma la vera questione è che – più o meno inconsciamente – tendiamo a riporre la nostra speranza nella politica, come se la nostra consistenza di uomini, la nostra felicità dipendessero dalla politica, dalla vittoria o meno di un partito o uno schieramento. Sta qui un grosso errore di prospettiva: la politica è uno strumento importante, chi può o ne ha le capacità fa anche bene a impegnarvisi, ma la nostra consistenza di uomini viene ben prima di qualsiasi forma di governo e prima di qualsiasi schieramento di partiti. La nostra salvezza, così come quella di un popolo, viene da Dio, non dalla politica. È per questo che usiamo i princìpi non negoziabili (vita, famiglia, educazione) come criterio di giudizio delle forze politiche: questi princìpi sono connaturati alla persona, sono frutto di quella legge naturale che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo. Vengono perciò prima – cronologicamente e ontologicamente – di ogni partito e di ogni forma di Stato: a partire da questi costruiamo le nostre opere nella società e alla politica chiediamo anzitutto il rispetto e la garanzia di questi princìpi.
Proprio perché abbiamo a cuore questi princìpi non possiamo essere equidistanti davanti alle forze politiche o agli schieramenti che si presentano (non si può evidentemente sostenere in nessun modo chi programmaticamente opera per distruggere la famiglia, per soffocare la vita, per affermare il monopolio statale sull’educazione), ma allo stesso tempo non è dalle forze politiche che dobbiamo aspettarci indicazioni che diano senso alla vita. Al contrario, è il nostro senso della vita che deve dare un senso anche alla politica.
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