E la cavalcata furiosa dei quattro cavalieri passava come un uragano sull’immensa folla umana. Mostruosi, orribili e deformi volteggiavano a spirale come una scorta ripugnante… La povera umanità, folle di paura, fuggiva in tutte le direzioni sentendo il galoppo della Peste, della Guerra, della Fame e della Morte…. Dio si è addormentato dimenticando il mondo – continuò il russo –. Tarderà molto a svegliarsi e, mentre dorme, i quattro cavalieri feudatari della Bestia scorazzeranno per la terra, unici signori»: così scrive Vicente Blasco Ibanes (1867-1928) nel suo romanzo I quattro cavalieri dell’Apocalisse (Newton Compton, 1995). Nel testo dell’autore spagnolo, scritto nel 1916, i quattro cavalieri dell’Apocalisse devastavano un intero continente: poche immagini sono più significative di queste.
Del resto tutta la storia della Prima guerra mondiale è un orrore senza fine, testimoniato in modo esemplare dai tanti poeti e letterati che vi presero parte. Solo due esempi. «Oggi siamo dieci, domani saremo otto: due li avrà fatti a pezzi l’artiglieria. I nostri morti rimangono insepolti», ha scritto il drammaturgo e rivoluzionario Ernst Toller (1893-1939), mentre Wilfred Owen (1893-1918), che viene ricordato come il “poeta della Prima guerra mondiale”, così descrive un amico ucciso dal gas asfissiante: «Se in qualche sogno da togliere il fiato fossi anche tu… / A guardare nel bianco dei suoi occhi che si storcono dentro la sua faccia / Che penzola a rovescio, come faccia di un demonio che sia stanco di peccare; / E se potessi udire, a ogni scossa, il gorgoglio del sangue dei polmoni / Schiumanti e corrosi, come bolo / Amaro di essudato dalle piaghe / Orrende su lingue innocenti; / Amico mio, tu non ripeteresti con tanto sacro zelo / a dei ragazzi anelanti a qualche gloria disperata / L’antica Menzogna: Dulce / Et decorum est pro patria mori».
Un orrore moltiplicato milioni di volte, toccato ad amici, figli, fratelli, padri dei quali spesso non rimase più nulla se non corpi fusi e marciti nel fango, fatti a pezzi dall’artiglieria. Basti ricordare che, secondo lo storico militare John Keegan, nelle guerre moderne sono frequenti le ferite subite dall’urto di pezzi di ossa e denti dei propri commilitoni, diventati anch’essi proiettili.
Anche se le perdite umane furono concentrate soprattutto sui militari al fronte, contrariamente a quanto accadrà nella Seconda guerra mondiale, anche le popolazioni civili subirono disastri dalla Grande Guerra paragonabili a quelli della Guerra dei Trent’anni (1618-1648). E, tuttavia, prima di analizzare le conseguenze del conflitto, sarà utile capire le origini culturali di tale disastro, al di là delle responsabilità politiche di chi deteneva il potere in Europa nel 1914.
Le origini culturali
Il “suicidio dell’Europa” come lo definiva Giuseppe Romolotti in un suo fortunato saggio ha radici lontane che possono essere riassunte in un nome: Karl von Clausewitz. Se “la guerra è la continuazione del procedimento politico con l’intervento di altri mezzi” si può giustificare praticamente qualsiasi sopruso o delitto, purché sia sostenuto da una forza militare adeguata. Tutta la storia europea, dalle conquiste coloniali del XVI secolo alla formazione degli Stati nazionali, portava a questa conclusione. Come negare che la Germania fosse stata costruita dalla Prussia di Bismarck con guerre vittoriose come quelle contro Danimarca (1864), Austria (1866) e Francia (1870)? Come negare che il Risorgimento italiano fosse la conquista operata dallo Stato preunitario con l’esercito più numeroso e organizzato e cioè il Piemonte dei Savoia, ricco di tradizioni militari sconosciute alle altre regioni? L’Italia aveva visto tre guerre di indipendenza più l’abbattimento dello Stato Pontificio e del Regno di Napoli al modico costo di qualche migliaio di caduti. Erano, tuttavia, guerre brevi che duravano settimane, a volte mesi e con un numero limitato di caduti in battaglia. Dopo le guerre napoleoniche, l’unico conflitto durato più di un anno era stato quello tra Francia, Inghilterra e Turchia contro la Russia, con la spedizione in Crimea (1854-1855).
Ma sono le guerre coloniali quelle in cui le Grandi Potenze diedero il meglio e il peggio di loro stesse. Nei confronti delle popolazioni, ree di non voler sottostare al dominio degli occidentali e della loro strapotenza bellica, poteva essere usata la forza senza alcuna restrizione, intraprendendo vere e proprie guerre di sterminio. Nessuna nazione della “Felix Europa”, senza dimenticare gli Stati Uniti, ebbe il minimo scrupolo in ciò. L’uomo civilizzato era già brutale durante la Belle Époque: solo che lo era nei confronti delle “razze inferiori”, anche se erano bianchi, come i coloni boeri del Sudafrica, poco importava. Il termine “Lager” fu coniato proprio nella guerra boera, quando gli inglesi rinchiusero 120.000 civili in campi di concentramento, nei quali un terzo di essi morì di malattie e di stenti. Di questi, ben 20.000 non avevano più di quindici anni (cfr. Emilio Gentile, L’apocalisse della modernità, Mondadori, 2008 p. 47). E che dire della repressione operata dai soldati tedeschi del generale Lothar von Trotha in Namibia, laddove l’ufficiale così si esprime: «L’esercizio della violenza, del terrorismo e persino della macabra ferocia era ed è la mia politica». In questo modo, l’etnia degli herero fu sterminata per l’80% tra il 1904 e il 1907. Sarebbe vano cercare chi si scandalizzò per tali crimini in Europa e soltanto da pochi anni lo Stato tedesco ha ammesso che il governo del Kaiser compì un vero e proprio genocidio. Ma quello che nessuno poteva prevedere era che la stessa forza sarebbe stata adoperata senza restrizioni contro i civili belgi nell’agosto del 1914. Solo a Dinant, come rappresaglia a una fucilata tirata, a dire dei tedeschi, dal figlio del borgomastro, vennero fucilati più di 600 civili compreso Felix Fivet, un neonato di tre settimane. Dinant non fu un caso isolato. Le vittime delle rappresaglie delle truppe del Kaiser assommarono a 6.000. D’altra parte anche un reparto italiano ebbe modo, il 29 maggio 1915, di assassinare una mezza dozzina di civili a Villesse, in Friuli, come rappresaglia a un non ben precisato sabotaggio. Né si può dimenticare il sorriso ributtante dei boia di Cesare Battisti e della folla di cittadini dell’“Austria felix” che attorniava il patibolo, immortalato in fotografie che, oggi, sono cadute nell’oblio.
Questo è l’altro volto dell’Europa che molte volte si rimpiange, spesso a sproposito. Un continente evoluto, ricco, tirannico verso l’esterno e dove la guerra era come un mondiale di calcio, un po’ più eccitante. Per tutto l’Ottocento, partecipare a una battaglia poteva essere una prova di forza, un rito di iniziazione all’età adulta (un po’ come frequentare un bordello), e con buone probabilità di tornare a casa illeso con le usuali ricompense: gloria, successo, futuro assicurato, l’ammirazione della donna ecc. Ovviamente per le classi umili, che fornivano gran parte della carne da cannone, il discorso era diverso, ma la brevità delle guerre e l’utilizzo di armi ad avancarica permetteva di sopportare anche questa disgrazia, come si sopportavano la siccità e la grandine.
Il costo umano
Fra il 1870 e il 1914 tutto cambiò: fucili a ripetizione, mitragliatrici e cannoni a tiro rapido resero il campo di battaglia un immenso tritacarne. Culturalmente, invece, sovrani, ministri e generali erano rimasti a Napoleone, come se «un cocchiere fosse alla guida di una Mercedes Benz» (Correlli Barnett, I generali delle sciabole, Longanesi, 1963, p. 18). I popoli, uomini e donne, pervasi dalla religione nazionalista, si buttarono nella fornace e i risultati si videro ben presto. Solo a Verdun, nel 1916, i francesi persero mezzo milione di uomini tra morti e feriti e i tedeschi 400.000.
Quando la guerra terminò, l’11 novembre 1918, le perdite umane avevano raggiunto livelli che, ancora oggi, appaiono inconcepibili, concentrate nella popolazione maschile giovane. Percentuali di perdite del 73 per cento fra i mobilitati francesi o del 64 per i tedeschi rendono l’idea. A ciò si aggiunse lo sterminio provocato nel biennio 1918- 1919 dall’influenza “spagnola”, che uccise 50 milioni di persone in tutto il mondo (375.000 solo in Italia). La pestilenza fu una causa non secondaria della resa degli Imperi centrali, in quanto eliminò dal campo di battaglia milioni di soldati austriaci e tedeschi, già indeboliti dalle privazioni causate dal blocco navale operato dagli Alleati.
Il vuoto lasciato dai caduti e dai mutilati venne riempito, sul mercato del lavoro, dalle donne e dagli immigrati. In Francia, in modo particolare, afflitta da molti anni da una crisi di natalità, affluì un milione di lavoratori stranieri, provenienti dai Paesi slavi e anche dall’Italia, mentre le donne lavoratrici passarono dal 32% del 1913 al 40% nel 1918 (Antoine Prost, Lo sconvolgimento della società, in La prima guerra mondiale, a cura di Stephane Audoin-Rouzeau e Jean- Jacques Becker, Einaudi, 2007).
Come era prevedibile, le enormi spese di guerra portarono a un rialzo dell’inflazione sia nei Paesi vincitori sia, soprattutto, nella sconfitta Germania. Anche il ridotto potere di acquisto dei salari portò a un incremento del lavoro femminile e a un sempre minore affidamento sulla dote, come premessa per il matrimonio. La dote migliore che potevano dare i genitori ai figli e, soprattutto, alle figlie, divenne un’istruzione che permettesse un lavoro di livello alto e uno stipendio in proporzione. Anche la vita familiare cambiò: le donne sposavano uomini o più giovani di loro o molto più vecchi, o stranieri, con un aumento sia dei matrimoni che dei divorzi.
Quanto ai reduci, il loro reinserimento fu reso molto più difficile da un mondo che, come si è visto, era totalmente cambiato dall’inizio della guerra e che, anzi, pareva poter fare a meno di loro come aveva fatto per quattro lunghi anni. Era proprio quello che i superstiti delle trincee, sopravvissuti a una delle esperienze più spaventose mai toccate a essere umano, non potevano tollerare. La rabbia, il rancore, l’orgoglio di aver combattuto e di essere ancora vivi, l’abitudine alla violenza e all’omicidio dovevano essere il materiale esplosivo che sarebbe stato adoperato dagli ideologi dei decenni successivi e che avrebbe portato a una seconda, ancora più terribile, apocalisse.
IL TIMONE – Aprile 2014 (pag. 36-38)
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