Un Pontefice che ha riaffermato con forza il Primato di Pietro. Avocando a sé la risoluzione della cause principali di carattere dottrinale. Dopo aver condannato l’eresia pelagiana, sant’Agostino dirà: «Roma ha parlato. La causa è risolta!»
Innocenzo I è considerato un Papa che, prima dell’avvento del grande papa Leone I, in un periodostorico di passaggio in cui le scorribande barbariche accelerano lo sgretolamento del già debole Impero romano, riesce a far sì che il vescovo di Roma diventi la massima autorità morale e legislativa della Chiesa universale.
Inoltre, a causa dell’estrema debolezza del potere civile, assume incarichi e mansioni da amministratore della cosa pubblica per il bene dei fedeli. In questo senso, lo sviluppo del Primato del vescovo di Roma diventa uno strumento per agire con maggior efficacia anche nella vita sociale.
Innocenzo è convinto che il Primato del Romano Pontefice riposi sulla tradizione che ha origine da Pietro stesso. Pertanto «ciò che è stato insegnato alla Chiesa di Roma da Pietro principe degli apostoli e che è stato conservato fino ai giorni nostri, dev’essere osservato da tutti» (Epist. 25,1).
Strumento privilegiato per affermare il Primato petrino è il potenziamento delle “decretali”, già introdotto dal suo predecessore papa Siricio (384-399), con le quali legifera su diverse questioni, come il digiuno del sabato e l’ammissione alle ordinazioni: non sono ammessi bigami o chi ha svolto un servizio al culto pagano, e ribadisce con forza l’impossibilità per sacerdoti, vescovi e diaconi di contrarre matrimonio.
Della vita di Innocenzo prima dell’elezione a Papa il 22 dicembre del 401 si sa ben poco. Istituisce nel 412 il vicariato di Tessalonica indicando il vescovo “primates primus” rispetto alla vicina sede di Costantinopoli, incaricandolo di vagliare le questioni che da lì sorgono, valutando in autonomia quelle da affrontare e quella da inviare a Roma.
L’attività pastorale, documentata da molte epistole, è piuttosto intensa e vigorosa, divenendo presto punto di riferimento e faro luminoso della vita della Chiesa universale. In particolare, la lettera a Esuperio di Tolosa del 20 febbraio 405 indica quali sono i libri che devono rientrare nel canone, condannando altri testi attribuiti a Mattia, Giacomo il Minore, Pietro, Giovanni o Tommaso (ep. 6, 7, 13). È il primo canone biblico attestato a Roma dopo il documento edito dal Muratori.
Nel 403, quando l’imperatore orientale Arcadio allontana dalla sede di Costantinopoli ed esilia il legittimo vescovo Giovanni Crisostomo, Innocenzo protesta vibratamente inviando all’imperatore alcuni suoi delegati che però sono respinti, insultati e incarcerati. Giovanni Crisostomo è in forte contrasto con l’imperatrice Eudossia la quale, irritata dalle prediche riguardo alla sobrietà, attacca il santo vescovo su questioni teologiche con l’appoggio del patriarca di Alessandria Teofilo. Lo stesso Teofilo riunisce un sinodo che depone Giovanni Crisostomo al quale però non manca il sostegno del Papa che si espone fino al punto di rompere la comunione con i vescovi che appoggiano Teofilo. San Giovanni Crisostomo morirà in esilio nel 407.
Il pericolo maggiore arriva dalla discesa in Italia di Alarico, capo dei Goti, cui segue il tragico “sacco di Roma” del 24 agosto del 410, una terribile razzia di tre giorni interminabili, durante i quali Innocenzo ottiene dall’ariano Alarico almeno il risparmio di vite umane e la salvaguardia delle basiliche di San Pietro e San Paolo.
Innocenzo in quei giorni è a Ravenna dall’imperatore d’Occidente Onorio, proprio per trattare la fine dell’assedio di Roma da parte dei Goti. Tenta di ottenere delle terre per loro ma senza risultato, anche per il disinteresse di Onorio per le sorti dell’Urbe. Torna a Roma solo due anni dopo, trovando una città povera e in profonda decadenza. Interviene come può per risollevarla anche dal punto di vista materiale. Introduce riforme come il divieto di praticare l’antico culto pagano (ritenuto da molti il vero motivo del “castigo di Dio” abbattutosi sull’Urbe con l’invasione dei barbari). In questo frangente i cristiani, per un moto di rivalsa e compensazione, passano da perseguitati a persecutori dei pagani ostinati nel loro culto, anche se solo con singoli fatti sporadici.
Il nodo maggiore del pontificato è tuttavia la questione pelagiana, nella quale Innocenzo vuole far sentire in profondità tutta la sua autorità spirituale e giuridica, su sollecitazione dei vescovi africani.
Pelagio (354-419), monaco, scrittore e oratore di grande erudizione nato in Irlanda, si trasferisce a Roma dove acquista un vasto seguito sostenendo idee contrarie alla vera fede insieme con il fido Celestio. Afferma che il peccato originale è inesistente, giacché gli effetti non si sono propagati sui discendenti di Adamo ed Eva, gli unici responsabili di tale peccato e i soli a pagare le conseguenze della colpa, che rimane personale. Di conseguenza, Cristo non ci ha redento dal peccato risultando così solo una figura di alto valore morale. L’umanità per salvarsi deve perciò seguire una severa ascesi personale per elevarsi da se stessa con la propria buona condotta. Il battesimo, secondo l’eresia di Pelagio, non cancella nessun peccato perché quest’ultimo è inesistente nei neonati. In base ai nostri meriti e alle scelte del libero arbitrio, otteniamo le grazie spirituali necessarie, le quali non sono gratuitamente donate dal Cristo mediatore, ma ottenibili solo a fronte di un personale sforzo ascetico.
Per confutare tali degenerazioni, scendono in campo grandi personalità, tra cui sant’Agostino, dopo che Pelagio e Celestio avevano propagato le loro idee erronee in Africa e in Medio Oriente. Dopo essere stato condannato nel 411 a Cartagine, Pelagio ottiene una prima riabilitazione al sinodo di Diospoli del 415, il che impressiona molto negativamente i vescovi africani, che convocano nell’estate del 416 due Concili, uno a Cartagine e l’altro a Milevi, confermando la condanna del 411. Tuttavia, il vescovo di Cartagine Aurelio e sant’Agostino ritengono fondamentale chiedere conferma al Papa della decisione presa, per essere sicuri che «il loro piccolo rigagnolo proviene dalla stessa sorgente da dove esce il fiume abbondante della sana dottrina» (Epist. 28,17). Innocenzo già nella lettera rivolta ai padri del Concilio di Milevi è molto esplicito sul fatto che tutte le Chiese debbano rivolgersi alla Sede romana per risolvere le questioni che sorgono di carattere dottrinale.
Il 27 gennaio 417 il Papa condanna con decisione Pelagio. Agostino è pienamente soddisfatto della risposta della Santa Sede dichiarando: «La causa è finita: venga il tempo della fine dell’errore! », giunta fino a noi nella più conosciuta formula: «Roma locuta, causa finita!».
IL TIMONE N. 116 – ANNO XIV – Settembre/Ottobre 2012 – pag. 54 – 55
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