ISLAM, SE LO CONOSCI SAI COSA FARE
Davanti ai problemi posti dal fondamentalismo, si fa a gara per scongiurare guerre di religione o scontri di civiltà. Ma senza demonizzare tutti i musulmani, è chiaro che il problema della violenza ha a che fare con l'islam. E anche dal punto di vista religioso il dialogo ha una regola precisa: l'annuncio
Uno degli aspetti più sorprendenti delle notizie che ormai da mesi ci raggiungono quotidianamente a proposito delle guerre e delle violenze dei fondamentalisti islamici in Medio Oriente e in Africa sta nelle reazioni di tanti opinionisti e intellettuali anche del mondo cattolico. Sembra ad esempio che davanti alla persecuzione dei cristiani in Iraq, la preoccupazione principale sia quella di affermare che non si tratta di una guerra di religione, figurarsi lo «scontro di civiltà». Così bisogna spiegare tutto a partire dall'economia: «si fa la guerra per i soliti motivi economici», si dice. E siccome siamo in Medio Oriente ecco che il motivo sta nel petrolio (uno schema classico, nessuno però che abbia spiegato come mai stavolta il prezzo del petrolio non sia salito anzi è pure sceso).
Data questa premessa si passa poi a sostenere che chi commette queste atrocità tradisce il vero islam, che l'islam è una religione di pace, e che quindi in tutto questo l'islam non c'entra nulla.
Insomma, il fatto che – come spiega l'articolo di Vincenzo Sansonetti – la maggior parte dei conflitti nel mondo abbia a che fare con regimi o gruppi islamici sarebbe soltanto una sfortunata coincidenza. Ovviamente non si può affermare che tutte le guerre abbiano a che fare con l'islam né che tutti i musulmani siano fondamentalisti o potenzialmente terroristi.
Negando però l'evidenza, affermando solo ciò che è politicamente corretto, ci si preclude la possibilità di comprendere davvero la realtà e di affrontare i problemi in modo efficace. Perché alla fine la domanda a cui rispondere – di fronte alle guerre in corso e all'immigrazione – è come rapportarsi con l'islam.
Domanda a cui non si può rispondere se prima non si conoscono alcune questioni che sono alla base dell'islam.
Intanto la questione della violenza. È vero che si possono dare diverse interpretazioni del Corano, ma non ci si può nascondere che il testo sacro dell'islam non esclude affatto la violenza, anzi: lo stesso Maometto ha combattuto personalmente sessanta guerre e dall'origine la propagazione dell'islam è avvenuta attraverso la spada. E nel corso della storia l'oscillazione tra una interpretazione spirituale del combattimento e una militare ha visto spesso prevalere quest'ultima, come nel periodo che stiamo vivendo. Lo ha scritto con molta chiarezza l'ex ministro kuwaitiano dell'Informazione Saad bin Tafla al Ajami, lo scorso 7 agosto su un quotidiano del Qatar, a proposito dei guerriglieri che hanno creato lo Stato Islamico di Iraq e Siria: «La verità che non possiamo negare ha detto al Ajami – è che l'lsis ha studiato nelle nostre scuole, ha pregato nelle nostre moschee, ha ascoltato i nostri mezzi di comunicazione … e i pulpiti dei nostri religìosi, ha letto i nostri libri e le nostre fonti, e ha seguito le fatwe (responsi religiosi) che abbiamo prodotto». E la scrittrice yemenita-svizzera Elham Manea, ha aggiunto: «L'lsis è il prodotto del nostro discorso religioso, un discorso diffuso. È prodotto di un processo politico che è iniziato con la nascita dell'ideologia dell'islam politico, propagato a partire dal 1973 grazie ai soldi del petrolio delle monarchie del Golfo e proseguito con la rivoluzione iraniana del 1979. È il prodotto di una strategia politica».
E qui c'è il secondo punto da tenere presente:
nell'islam non c'è quella separazione tra religione e politica che siamo abituati a concepire in Occidente. Per cui facilmente la religione cerca l'affermazione politica e la politica usa la religione per affermarsi. Ancora Manea: «Capi di Stato sfruttano il fenomeno dell'islam politico, appoggiano alcuni gruppi islamici piuttosto che altri e intessono alleanze politiche con loro. Il loro fine è politico: legittimare il loro potere attraverso la religione e/o delegittimare quella dei loro oppositori. Siffatta alleanza machiavellica ha un prezzo. In cambio del sostegno, i gruppi islamici sono autorizzati a monopolizzare il discorso religioso con la loro ideologia di odio, esclusione e intolleranza – moschee, mezzi di comunicazione e scuole diventano il terreno fertile per diffondere la loro ideologia».
Non è difficile trovare riscontro a queste parole. Non è un mistero che le monarchie del Golfo – a partire dall'Arabia Saudita – finanzino la costruzione di moschee nei paesi occidentali e anche inviino imam per predicare la loro visione dell'islam, religiosa e politica insieme. Così come pure è evidente che in Medio Oriente si sta combattendo anzitutto una guerra tra sunniti e sciiti, secondo una linea di demarcazione in cui appartenenza religiosa e interesse politico-strategico degli Stati coincidono. Il Califfato dello Stato Islamico ha preso il controllo delle zone sunnite di Iraq e Siria e contro combattono gli sciiti sostenuti dall'Iran (come Hezbollah), la Siria di Assad, il governo di Baghdado E anche la Turchia, che pure ha sostenuto apertamente la ribellione in Siria contro Assad, in agosto si è trovata nell'imbarazzante situazione di dover cambiare campo perché prima vittima dello Stato Islamico di Siria e Iraq è stata la minoranza sciita di etnia turcomanna. A questo va aggiunto che però la guerra non è solo un fatto interno tra fazioni dell’islam: la lotta per la supremazia nel mondo islamico implica anche strategie diverse per la conquista dell'Occidente, a partire da Spagna e Sicilia che, avendo già conosciuto la dominazione araba, sono territori dall'alto valore simbolico.
Come dimostra questo rapido affresco il fondamentalismo è un problema anche per gli stessi musulmani, e le voci che chiedono un ripensamento nell'interpretazione del Corano non mancano, come dimostrano le due personalità citate in precedenza. Ma si deve anche onestamente riconoscere che tali voci sono isolate, mentre davanti alle atrocità cui abbiamo assistito in questi mesi c'è stato un sostanziale silenzio del mondo musulmano. Gli stessi vescovi iracheni hanno denunciato questa mancanza di condanna delle violenze da parte delle autorità islamiche. In parte ciò può essere dovuto al sostanziale consenso popolare all'islamizzazione forzata, ma in parte lo si deve anche al fatto che nell'islam in realtà non ci sono vere autorità religiose. Nulla cioè di paragonabile alla Chiesa cattolica: ogni imam, ogni ayatollah rappresenta solo se stesso e coloro che lo seguono, ma non c'è alcun "tribunale" a cui rivolgersi per conoscere la vera interpretazione dell'islam. Anche le varie associazioni o centri culturali islamici presenti in Europa non sono in alcun modo rappresentativi della comunità islamica, ovvero non sono riconosciuti dagli stessi musulmani.
E questo pone un'altra inevitabile questione perché di fronte ai gravi problemi che interessano anche gli islamici non c'è un reale interlocutore che sia rappresentativo almeno di una parte consistente di loro. Quest'ultimo aspetto ha delle chiare implicazioni, politiche e religiose. E soprattutto all'aspetto religioso vale qui la pena almeno accennare.
Nel mondo cattolico la parola d'ordine è "dialogo". Ma a parte il fatto che il dialogo presuppone che a voler comunicare siano ambo le parti,' se ciò che abbiamo detto è vero, appare chiaro che il dialogo interreligioso, nel senso tradizionale del termine, è impossibile. Dal punto di vista istituzionale la Chiesa non ha interlocutori che possano parlare a nome dell'islam e neanche di una "certa interpretazione" dell'islam. Ciò che è possibile è soltanto un rapporto personale con musulmani; e dare voce e sostegno a coloro che lavorano per una riforma dell'islam che faccia i conti con la modernità, e soprattutto con la verità dell'uomo. Ed è qui che è importante chiarirsi, perché oggi nel mondo cattolico il "dialogo" è diventato una sorta di dogma, ma non è affatto chiaro su cosa bisogna dialogare. Anzi, si usa il concetto di dialogo come se questo fosse il contenuto di un incontro con l'altro, mentre esso può essere considerato soltanto un metodo. E il contenuto del dialogo non può che essere la verità, andare al fondo della verità di noi stessi, ovvero «dare ragione della speranza che è in noi». Insomma dialogo e annuncio coincidono, come in altri tempi – non meno problematici – ha dimostrate san Francesco incontrando il Sultano •
Il Timone – Settembre/Ottobre 2014