Intervista al vescovo Luigi Negri: la cultura popolare, che in Italia era impregnata di fede e valori cristiani, è stata colpita dal Risorgimento. E oggi, un colpo di Stato strisciante, che vede scontrarsi poteri forti, minaccia il bene comune reale e concreto del popolo italiano
Gli italiani non riescono ancora a unificarsi? Si è fatto qualche ragione di questa “questione nazionale”?
«Credo che, oggi come 150 anni fa, la questione nazionale fondamentale rimanga il problema della cultura popolare, un problema aggravato dal fatto che in questo lungo periodo nulla è stato tentato per affrontarlo e risolverlo.
Che cosa intendo per cultura popolare? Mi riferisco a quelle esigenze fondamentali della vita di un popolo che tendono a formulare una visione della realtà da cui nascono giudizi etici e una serie di relazioni sociali. Ora, queste esigenze vennero completamente ignorate nel 1861, quando nasceva lo Stato italiano. Nel XIX secolo poteva certamente esserci, in Italia, una esigenza di unificazione politica fra i diversi Stati pre-unitari, per quanto forse questa stessa esigenza venne esagerata. Tuttavia, in quella occasione, vennero utilizzate come base per lo Stato che stava nascendo a completamento del processo risorgimentale diverse ideologie già tendenzialmente totalitarie che, sostanzialmente, negavano la cultura popolare di allora, radicata da secoli nei principi del cattolicesimo. È trascorso un secolo e mezzo. In questo lungo periodo, le ideologie di allora si sono diffuse nel popolo e hanno costituito culture alternative a quella cristiana. Molti, fra cui anch’io, magari ingenuamente, hanno pensato che,dopo il 1989 e il crollo del Muro di Berlino, si sarebbe potuto iniziare un effettivo dialogo fra queste diverse culture. Su questo punto papa Giovanni Paolo II aveva investito molto, allo scopo di fornire risposte adeguate alle domande di senso che venivano poste sempre più frequentemente dagli uomini dell’ultimo quarto del secolo XX, “disperati” e delusi anche in seguito al fallimento delle stesse ideologie.
Purtroppo questa occasione storica è andata perduta. Al posto delle ideologie del Novecento, che hanno fallito, si è imposta una nuova “ideologia del massmediatico”, materialista, edonista e progressista. Questa ideologia tecno-scientista ritiene che la natura sia un oggetto manipolabile; essa prevede anche che vi siano dei poteri che abbiano il diritto di intervenire sulla realtà, anche al di fuori dal proprio ambito, per orientare la storia verso progetti coerenti appunto con l’ideologia dominante. È quello che sta cercando di fare per esempio in Italia la magistratura e una circostanza in cui questo tentativo di manipolazione della realtà si è espresso in tutta le sua esemplarità e violenza è stato in occasione dell’omicidio di Eluana Englaro.
Se questo è il quadro, se questa analisi è esatta, allora il problema fondamentale consiste nel portare in primo piano le esigenze di un popolo che non può accettare la “melassa” che gli viene proposta dalla cultura progressista e anticattolica, ma al contrario deve riscoprire e nutrirsi di quella cultura che dà senso all’esistenza, che è fattore di educazione e di formazione della persona. In quest’ottica, fare apologia incondizionata del Risorgimento è negativo, perché si chiudono gli occhi su ormai molti studi che hanno mostrato anche il volto meno nobile del processo culturale e politico italiano che ha condotto il Paese verso la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861. Studi che potranno essere criticati, ma non possono essere esclusi dal “circuito editoriale che conta”, perché così si mortifica la ricerca storica che, per definizione, deve invece essere libera di esprimersi».
Si afferma spesso che manca il senso dello Stato. E spesso si accusano i cattolici di non avere ancora il senso dello Stato. Ma lo Stato che ha guidato la nazione per 150 anni può essere giudicato?
I cattolici oggi hanno la responsabilità di testimoniare l’autentica laicità dello Stato. Secondo la dottrina sociale della Chiesa, la laicità dello Stato si verifica quando quest’ultimo non invade lo spazio della coscienza. Ricordo in questa prospettiva gli importanti interventi dei cardinali Giovanni Colombo e Giacomo Biffi. Uno Stato come viene concepito nel mondo moderno non ha il diritto di indicare e orientare verso obiettivi culturali o confessionali: in sostanza non può imporre una propria cultura o confessione religiosa, non deve violare il diritto della persona di essere lasciata libera di scegliere senza subire pressioni. Uno Stato così costruito permette che sussistano diverse culture nell’ambito del territorio di sua competenza e favorisce e cerca di avviare il dialogo fra queste diverse culture: questo è uno Stato laico e non laicista, che valorizza la religione nella vita pubblica senza essere confessionale. Papa Benedetto XVI ha elogiato questo modello nel corso del suo viaggio apostolico negli Stati Uniti, contrapponendo questo modello di “laicità positiva” a quello conflittuale nato dal laicismo aggressivo della Rivoluzione francese.
San Tommaso d’Aquino rimane attuale quando ricorda che il bene comune si verifica quando esiste una vera libertà per le persone e per i corpi intermedi, e quindi la possibilità di dialogo fra loro. Ricordo anche come per mons. Luigi Giussani lo scopo dello Stato è di regolamentare il dialogo fra le parti della società, non di imporre dall’alto e con la sua autorità un proprio progetto ideologico: la democrazia, infatti, nasce dal basso, o dall’interno della società se vogliamo, e lo Stato deve limitarsi a regolamentarla.
Nel 1965, 20 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, organizzai con altri amici sulla rivista Milano studenti dell’allora Gioventù Studentesca una celebrazione della Resistenza alla luce di questo slogan: “Non ci basta più la libertà della Resistenza, ma facciamo resistenza per la libertà”. Volevamo mettere in risalto la necessità di combattere una nuova battaglia per la libertà, cioè per l’esistenza reale di un pluralismo delle istituzioni, di scuole diverse, espressioni delle differenti culture che esistevano in Italia. Questo obiettivo minimo di libertà concreta, della libertà di educazione, non è stato ancora possibile raggiungerlo dieci anni dopo l’inizio del terzo millennio, sotto tutti i molti governi che si sono succeduti alla guida dell’Italia dal 1945. Nel 1864, l’allora ministro della Destra storica Marco Minghetti scriveva: “In linea di principio sarebbe meglio se esistesse una pluralità di scuole, ma se ne approfitterebbero i clericali”. E così questo obiettivo di giustizia non si è mai raggiunto. “Mandateci in giro nudi, ma non negateci la libertà di educazione” diceva ancora mons. Giussani».
Che cosa suggerisce un vescovo per uscire dalla crisi di identità che colpisce il popolo italiano? Esiste una medicina che potrebbe, se somministrata, favorire la guarigione dalle ferite storiche? E se tutto questo avverrà, quanto tempo ci vorrà, approssimativamente, trattandosi di una medicina “culturale”?
Un vescovo consiglia di non scegliere strade apparentemente facili e veloci perché l’educazione è una via lunga e difficile. Non si improvvisa una classe dirigente, se non dopo un lungo e faticoso itinerario di formazione. Così ha fatto la Chiesa e così è nata la civiltà cristiana in seguito alla Prima evangelizzazione.
Capisco che i problemi urgano, ma ritengo che la via veloce sia una tentazione che oltretutto sfocerebbe facilmente in un atteggiamento di antidemocraticità, perché ridurrebbe il problema a un semplice scontro di poteri. E, in effetti, è quello che sta accadendo oggi, laddove poteri forti e capaci di condizionare tentano di imporre una loro soluzione alla crisi politica, prescindendo e anzi contraddicendo il mandato del popolo espresso attraverso normali consultazioni elettorali: mi sembra che in Italia si stia verificando un autentico colpo di Stato strisciante. La politica senza cultura è “politicantismo”, uno scontro fra poteri che non può realizzare il bene comune reale e concreto del popolo, così come viene indicato dal Magistero sociale della Chiesa.
Dossier: UNITÀ e RISORGIMENTO: 150 anni, tre ferite
IL TIMONE N. 99 – ANNO XIII – Gennaio 2011 – pag. 42 – 43
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