Un nome da dare ai propri figli, una data da festeggiare solennemente, un volto da implorare nel momento del bisogno. Ai santi protettori si rivolgono anche i non praticanti e perfino i non credenti, in un tempo in cui gli uomini sembrano essersi dimenticati di Dio e della Chiesa. Ecco perché l’abolizione delle feste patronali rende più povero il nostro Paese
I santi patroni sono i veri protagonisti della storia e della vita presente del nostro Paese. Vale per l’Italia, così come per tutte le nazioni che hanno avuto una storia, anche remota, di robusto cattolicesimo: borghi e villaggi, piccole città di provincia e metropoli congestionate di traffico e di grattacieli, tutte conservano un legame forte, visibile e duraturo con uno o più santi protettori.
Il Risorgimento ha tentato di dare all’urbanistica del Bel Paese una riverniciata di laicissimo fulgore patriottico, moltiplicando in maniera ossessiva le vie Garibaldi e le piazze Mazzini. Ma le statue dell’eroe dei due mondi o i monumenti equestri a Vittorio Emanuele sono condannati a starsene perennemente davanti alla Cattedrale o alla basilica dedicata al santo patrono della città, che è lì imponente da secoli a dominare la vita quotidiana di innumerevoli generazioni. I turisti giapponesi e tedeschi vengono da lontano per visitare San Pietro a Roma o Sant’Ambrogio a Milano, al cui confronto gli eroi del risorgimento e le loro statue appaiono, in tutti i sensi, davvero molto piccole. Anche con l’avvento della Repubblica lo Stato ha tentato di rinvigorire la desacralizzazione del panorama, dedicando viali e piazze alla Costituzione e alla Resistenza. Ma anche il fulgore democratico non ha potuto sradicare dal cuore dei nostri mille campanili il legame fortissimo con il santo di riferimento, il patrono adottato come protettore sicuro al quale affidare, almeno una volta l’anno, le sorti del proprio angolo di mondo.
L’arte ci parla dei santi patroni
In effetti, la prima cosa che si nota percorrendo le strade del nostro Paese è che i santi protettori hanno dettato le scelte urbanistiche ai nostri antenati. Di solito, nel centro della città – sia essa piccola o grande – sorge la chiesa dedicata al patrono, o che ne ospita il corpo o le reliquie, e che magari dà anche il nome alla piazza o alla via principale. La secolarizzazione, o anche una certa indifferenza religiosa, fanno in modo che si faccia poco caso a tutto questo. In certe grandi città del nord, rese più fredde e anonime dalle trasformazioni economiche e produttive, la cosa può per molti passare inosservata. E in altri centri urbani, sorti nel clima barbaro dell’era contemporanea, il cemento armato ha rimpiazzato le guglie e i rosoni, e il viandante fatica non solo a capire a quale santo sia dedicato quell’edificio, ma innanzitutto a capire se quella che ha davanti sia una chiesa, o una banca.
E tuttavia, fatta eccezione per queste malinconiche vestigia della modernità, ancora oggi, per la quasi totalità delle città italiane è vero il contrario: la chiesa principale domina la scena, ricordando a tutti, ogni giorno, il nome del patrono di turno. E per chi poi varca la soglia del tempio, nella penombra affascinante creata dalla maestria di architetti di cui magari s’è perso ormai il nome e il ricordo, ecco dischiudersi il racconto semplice e diretto, attraverso le immagini degli affreschi, della vita del santo patrono: la sua nascita, la sua conversione, i suoi miracoli, il suo ruolo nella costruzione della città o nella sua conservazione, la sua buona morte. Giovanni il Battista e Gennaro, Ambrogio e Carlo Borromeo, Pietro e Paolo, Caterina e Francesco, e centinaia di altri santi si animano e rivivono nelle immagini che ne raccontano la storia. Quasi una manifestazione della loro presenza reale e sorprendente accanto agli uomini che vivono ancora in questo mondo, e che si ricordano di loro, per lo meno quando hanno un problema da risolvere.
La vita delle persone
È vero: questi meravigliosi segni della nostra tradizione cattolica sorgono oggi in un contesto molto cambiato, forse perfino capovolto rispetto al passato. I sintomi della secolarizzazione si moltiplicano anche in un Paese formalmente cattolico come l’Italia: le chiese si sono svuotate, i seminari chiudono i battenti, i matrimoni civili superano in molti casi quelli religiosi, molti figli non vengono più battezzati, o battezzati con nomi improbabili, che poco hanno a che fare con i santi. Tuttavia, proprio in questo scenario desolante i santi patroni rappresentano un punto di resistenza, un ostacolo all’avvento definitivo della società nichilista. La vita delle persone comuni lo dimostra in molti modi: innanzitutto a cominciare dal nome, che non di rado “tradisce” la devozione di genitori e parenti per il santo protettore della città.
In secondo luogo, di solito un italiano sa chi è il patrono della propria città: può essere un miscredente, un ateo gaudente, un laico impenitente, ma è per così dire costretto ad associare l’identità della sua casa natale con la storia e la figura di un uomo elevato agli onori degli altari dalla Chiesa. E spesso questo rapporto è così misterioso e irrazionale, che il nostro homo secolarizzatus magari non va a messa, ma guai a toccargli il santo patrono. Basta pensare, ad esempio, alle cosiddette “regioni rosse” del nostro Paese, cioè a quelle terre ad altissima concentrazione comunista, che oggi sono spesso le capitali della secolarizzazione relativista post moderna. Non di rado, tra i vecchi militanti comunisti nemici acerrimi del prete, ve n’erano non pochi che erano segretamente devoti del patrono del paese. Una contraddizione dal sapore guareschiano, che tuttavia rivela la misteriosa potenza dei santi patroni, capaci di tenere aperta con un piede la porta dell’anima di un miscredente bolscevico. Ricordo che in alcuni paesini dell’Appennino romagnolo i contadini, molti dei quali iscritti al Partito comunista, disertavano la messa e sparlavano del prete. Poi, una volta l’anno, in occasione della festa del santo patrono, andavano a confessarsi, prendevano messa e facevano la comunione. Una condotta bizzarra, ma che la dice lunga sulla forza dei santi protettori. Per non dire del ruolo decisivo svolto nelle preghiere di rogazione: soprattutto nelle società rurali, se si voleva impetrare un buon raccolto, o una pioggia provvidenziale, o la guarigione da una malattia, si doveva andare da lui: dal santo che tante volte, nella storia, aveva cavato d’impiccio la gente di quella terra cui si sentiva di appartenere. In fondo, qualche cosa del genere accade ancora oggi, quando nell’ora della prova l’uomo moderno, esaurite le soluzioni offerte dalla scienza o dall’economia si mette in ginocchio davanti alla statua della Madonna o del santo protettore.
Il rapporto con il potere civile
I santi patroni dicono anche un’altra cosa importante: finchè ci sono loro, il potere civile mantiene un legame, almeno simbolico, con la Chiesa e con il Cielo. È un legame dal sapore vagamente medioevale, nel senso che il sindaco che con la sua fascia tricolore partecipa alla processione o alla messa in occasione della festa patronale compie un atto di implicito ridimensionamento del potere costituito. La cosa è paradossalmente ancor più forte quando a rivestire quell’incarico è – e accade purtroppo spesso – un uomo notoriamente lontano dalla Chiesa, o addirittura ostile al cristianesimo. In un’epoca di desolante laicizzazione delle istituzioni umane, di giacobina rivendicazione di una impossibile neutralità dello Stato in materia di fede e di valori, ecco: in un epoca come questa, San Gennaro e Sant’Ambrogio obbligano il sindaco relativista di turno a chinare il capo e a portare tutta la città ai piedi della statua di un santo di Santa Romana Chiesa. Questo aspetto rende i santi patroni decisamente scandalosi, elementi di rottura rispetto al progetto di de-cristianizzazione dell’Europa, così ben riuscito in nazioni come la Francia, l’Olanda, e in generale in tutti i Paesi protestanti, dove i santi sono stati le prime vittime illustri del furore iconoclasta del monaco eretico Martin Lutero. C’è più resistenza cattolica in una processione variopinta in onore di santa Rosalia che in un congresso di dotti teologi sull’esegesi biblica del Deuteronomio.
Le feste, i riti e la farina del diavolo
La festa del Santo Patrono ha dunque mille significati, alcuni più profani e visibili, altri più religiosi e profondi. La ricorrenza dedicata al patrono è infatti occasione per far esplodere la voglia di far festa, anche con qualche eccesso, di bere e di mangiare le specialità del luogo, di suonare e di cantare, di divertirsi. Ma la festa sta in piedi fintantoché essa ha la sua radice e la sua spiegazione nella figura del santo, modello da imitare e porto sicuro nel quale cercare rifugio: le feste patronali non ci sarebbero più se, almeno in una parte dei fedeli, non fosse stata conservata una sana devozione per il santo.
Finché la festa del patrono occupa un posto fisso nel calendario, essa coinvolge l’agenda delle autorità civili, impone il cambiamento della routine quotidiana, modifica i ritmi e le abitudini di tutto un popolo. In una parola, la festa del santo protettore della città è un rito. E i riti sono, come spiega magistralmente Antoine de Saint Exupery, «un giorno diverso dagli altri». «Se tu vieni tutti i pomeriggi alle quattro – spiega la volpe al Piccolo principe che lo sta addomesticando – dalle tre io comincerò a essere felice. Ma se tu vieni non si sa quando io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore (…) Ci vogliono i riti» (Il piccolo principe, capitolo XXI).
Il giorno di Sant’Ambrogio a Milano non si lavora, così come a Napoli nel giorno di San Gennaro: ciò non significa che tutti i milanesi e tutti i napoletani siano cattolici devoti del santo, ma implica che tutti, anche i non devoti e pure gli atei, siano obbligati a prendere atto che nella vita, oltre all’ufficio, al negozio, alla banca e al centro commerciale, c’è un’altra dimensione. Che è poi la più importante. Ecco perché abolire queste ricorrenze è un gesto inconsulto che sta certamente bene nell’agenda politica della Cina Popolare, o negli obiettivi di una confraternita di massoni, ma che nulla ha a che fare con la tradizione e la residua identità cattolica del nostro Paese.
Una cosa è certa: la farina prodotta in quel giorno di “festa soppressa”, per dirla con un vecchio adagio pieno di saggezza, è farina del diavolo. E andrà tutta in crusca.
Dossier: SANTI PATRONI
IL TIMONE N. 107 – ANNO XIII – Novembre 2011 – pag. 36 – 38
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