Per il filosofo di Königsberg è la morale che fonda la fede. E l’unico vero culto è la retta condotta morale. Considera le manifestazioni esteriori della religione superstizione o follia religiosa. Una posizione incerta e sbagliata
Il tedesco Immanuel Kant ( 1724-1804) è considerato uno dei maggiori filosofi di tutti tempi. All’interno della sua vastissima opera trova spazio anche un’ampia trattazione del problema religioso. A tale riguardo, il suo scritto più significativo è La religione entro i limiti della sola ragione del 1793: esso venne pensato dall’autore in stretto collegamento con le celebri Critiche, ovvero con il nocciolo stesso della sua filosofia. Questo nocciolo può essere identificato proprio nella ricerca e nella evidenziazione dei limiti che caratterizzano la condizione umana in qualunque ambito: quello della conoscenza, quello dell’etica e, infine, quello della religione, al quale Kant dedica appunto lo scritto del 1793, nel cui titolo la parola limiti viene usata per esprimere una concezione ben precisa della religione, ovvero il razionalismo religioso tipico del pensatore di Königsberg, che propone una «fede razionale»: la religione si giudica in rapporto alla sua razionalità. In tal senso, Kant ritiene il cristianesimo la più perfetta delle credenze, la più pura e la più vicina al modello di religione ideale della ragione.
Quale nemico giurato della metafisica razionale, Kant aveva concluso la Critica della ragione pura affermando l’assoluta impossibilità della ragione di dimostrare l’esistenza di Dio, dell’anima, della sua immortalità e della libertà umana. Tali verità, indimostrabili a parere di Kant, vennero poi in un certo modo recuperate dal grande pensatore tedesco, nella Critica della ragion pratica, come postulati, cioè come verità necessarie da credere e da accettare. Infatti, a suo giudizio, la vita morale dell’uomo manifesta l’esigenza che esista un Dio che premi la virtù con la felicità, garantendo così la ricompensa dei giusti e il castigo dei cattivi; richiede che l’anima sia immortale, affinché possa continuare il suo processo di purificazione e di santificazione che abbisogna di un tempo infinito; e richiede che esista la libertà, perché senza di essa non vi sarebbe autentica vita morale, in quanto l’uomo non avrebbe la facoltà di scegliere e non sarebbe perciò responsabile delle sue azioni. Nel pensiero kantiano, allora, è la morale a fondare la fede (e non viceversa). Secondo Kant, come si detto, la religione deve rimanere entro i limiti della razionalità; tuttavia è stato pure notato che il pensatore tedesco sembra lasciare aperto uno spazio per una positiva valutazione della dimensione storica della religione e del cristianesimo in particolare. Kant avrebbe perciò segnalato i limiti della ragione per affermarne il diritto a vagliare la religione, scartandone i contenuti irrazionali connessi alla sua pretesa (secondo Kant) storicità, ma anche per indicare l’incapacità della ragione a rendere pienamente conto di un aspetto fondamentale della realtà umana. Infatti, secondo Kant vi è nell’uomo una tendenza innata e naturale verso il male, una sorta di corruzione che spinge l’essere umano ad agire non soltanto in ossequio alla legge morale, ma cercando di soddisfare i propri impulsi sensibili ed i propri desideri egoistici. Questo «male radicale », che si presenta come la trascrizione filosofica del biblico peccato originale e che – afferma Kant – la gente comune si raffigura con i tratti del diavolo (a cui erroneamente Kant ne ga un’esistenza reale), è ineliminabile e l’uomo non ha certo la possibilità di cancellarlo con le proprie forze, cosicché la sua estirpazione ha richiesto l’intervento diretto di Dio, intervento che si è realizzato nell’Incarnazione e nella venuta sulla terra di Gesù Cristo. Siamo così giunti ai limiti stessi della ragione, che, come non è in grado di spiegare l’origine ultima del male radicale, non è neppure capace di comprendere un evento, qual è quello dell’esistenza del Cristo storico, che la oltrepassa completamente.
La questione del male radicale viene legata da Kant a quella della possibilità della sua soluzione: egli è sicuro che l’uomo può e deve essere in grado di superare lo scacco del male radicale, pena il venir meno della stessa attuabilità dell’imperativo morale: infatti, se non fosse possibile per l’uomo vincere la propria malvagità, egli non sarebbe libero e dunque non si darebbe vita etica. Comunque, anche nel caso dell’affrancamento dal male, Kant ribadisce l’incompetenza della pura ragione a renderne completamente conto. Certo è che a ciascuno si impone l’obbligo di impegnarsi con tutte le sue forze per far trionfare in sé la pura moralità; e tale impegno non potrà mai essere sostituito da alcuna pratica cultuale, anche se l’uomo è autorizzato a «sperare che ciò che non è in suo potere sarà completato da una cooperazione superiore ». L’unico vero culto resta per Kant la retta condotta morale: tutte le altre espressioni tipiche di una religiosità esteriore sono da lui considerate forme di superstizione, o di fantasticheria o, ancora, di follia religiosa. Come abbiamo già accennato, dinanzi alla figura di Cristo Kant manifesta un atteggiamento oscillante, e questo atteggiamento rimane tale anche al momento di valutarne l’azione redentrice. Infatti, il filosofo è preoccupato del fatto che l’uomo possa attenuare il proprio impegno etico confidando nell’opera salvifica del Figlio di Dio, ma nello stesso tempo non esclude che in Gesù Cristo Dio abbia voluto offrire all’umanità un sostegno soprannaturale nella lotta contro il male.
Ben due delle quattro parti in cui è suddiviso lo scritto kantiano sono dedicate al tema della Chiesa, inserito nel contesto di una più generale riflessione sui mezzi che la religione cristiana offre agli uomini per liberarsi dal male. La discussione kantiana prende le mosse dall’asserzione secondo la quale, come la corruzione morale avviene all’interno e a causa della vita associata, così, per sconfiggere tale corruzione, si rende necessaria la realizzazione di un’autentica comunità etica. Questa comunità è, nella sua forma più alta, la Chiesa invisibile, dinanzi alla cui esistenza Kant rivela ancora una volta una difficoltà epistemologica, consistente nel fatto di non potere né volere escludere la necessità di un intervento divino che la fondi, trovandosi tuttavia al contempo nell’impossibilità di comprendere razionalmente un simile intervento. Per quanto riguarda poi la Chiesa visibile, Kant non esprime una condanna inappellabile, anche se il giudizio che egli dà di essa e delle pratiche che ne caratterizzano la vita è estremamente critico e severo. Pure in questo caso, il filosofo di Königsberg si dimostra incerto nella valutazione dell’elemento storico all’interno della dimensione religiosa: da una parte sembra avvertirne l’esigenza e il fascino, dall’altra lo respinge, considerandolo estraneo a quella valutazione puramente etico-razionale che, sola, gli sta a cuore. La religione entro i limiti della sola ragione si presenta dunque come un’opera percorsa da una tensione non del tutto risolta tra l’adesione ai dettami di un razionalismo religioso di stampo illuministico e il riconoscimento del valore del Cristianesimo quale religione storica.
Giovanni Sala, La Cristologia nella Religione nei limiti della semplice ragione di Kant, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 96 (2004), 2-3, pp. 235-305
IL TIMONE N. 99 – ANNO XIII – Gennaio 2011 – pag. 32 – 33