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15.12.2024

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Kant e la seconda «rivoluzione copernicana»
31 Gennaio 2014

Kant e la seconda «rivoluzione copernicana»

 

 

 

 

Nel bicentenario della morte di uno dei filosofi più influenti, un’analisi critica della sua negazione della conoscibilità razionale di Dio.
Il 28 febbraio 2004 ricorre l’anniversario della morte di Immanuel Kant (1724-1804), il filosofo che ha applicato la «rivoluzione copernicana» al problema della conoscenza.
Per la riflessione metafisica antica e medievale la realtà può essere conosciuta, ma non può essere tradotta totalmente in concetti perfetti come quelli matematici, perché per l’intelletto dell’uomo l’essere mantiene sempre un fondamento di mistero.
Nell’età moderna si afferma la pretesa di ridurre il mondo a una realtà pienamente intelleggibile.
Sviluppando quest’opzione, il pensiero filosofico percorrerà due strade in apparenza contrapposte, ma in realtà unite dalla convinzione che la conoscenza sensibile attesti solo la modificazione soggettiva e non la natura della realtà percepita.
La prima strada è l’empirismo che fonda la conoscenza sui dati dell’esperienza, ma contemporaneamente riduce in modo arbitrario la nozione di esperienza ai puri dati sensibili, eliminando la conoscenza dell’intelletto.
La seconda strada seguita dalla filosofia moderna è il razionalismo che dubita delle certezze derivanti dall’esperienza e ignora la capacità dell’intelletto di cogliere i principi primi dalla realtà sensibile. Il razionalismo accetta esclusivamente la certezza che nasce dell’attività dimostrativa della ragione, ma, paradossalmente, sfocia nel soggettivismo perché fonda la verità sul pensiero del soggetto.
Kant si forma in questo clima culturale: il razionalismo gli trasmette l’idea che l’unico sapere certo, perché universale (cioè condiviso da tutti) e necessario (cioè fondato su verità evidenti alla ragione), sia quello scientifico; d’altra parte la lettura delle opere dell’empirista David Hume (1711-1776), che nega in modo assoluto la possibilità di cogliere principii universali e necessari dall’esperienza e, in particolare, nega la possibilità di conoscere il nesso causale e l’esistenza di sostanze materiali (i corpi) e spirituali (i soggetti), induce Kant a ritenere che sia necessario giustificare il valore della scienza rispondendo alle obiezioni poste dal filosofo scozzese.
La domanda fondamentale che Kant si pone è: in che modo la filosofia può fondarsi come scienza?
La risposta, che matura in 11 anni di riflessioni, implica una rivoluzione nell’impostazione del problema della conoscenza rispetto al modo in cui era stato posto tradizionalmente dalla filosofia, rivoluzione analoga a quella compiuta da Copernico nell’astronomia.
Come Copernico per spiegare alcuni fenomeni inspiegati aveva sostituito l’ipotesi geocentrica, secondo cui la terra è ferma e i pianeti le ruotano intorno, con l’ipotesi eliocentrica, secondo cui è il sole a rimanere fermo mentre la terra gli ruota intorno, così Kant nella Critica della ragione pura spiega la conoscenza facendo l’ipotesi che non sia il soggetto a ruotare intorno all’oggetto, traendone le verità universali e necessarie, ma sia l’oggetto a ruotare intorno al soggetto che, da parte sua, introduce nell’esperienza i principii e le leggi che la rendono intelleggibile.
Le leggi (categorie) che l’intelletto introduce nell’esperienza sono le dodici modalità con cui opera l’intelletto quando giudica, cioè quando unifica e ordina i dati della percezione sensibile.
La «rivoluzione copernicana» toglie valore all’obiezione di Hume secondo cui la causa e la sostanza sono solo «credenze» che non corrispondono ad alcuna rappresentazione sensibile: infatti per Kant l’intelletto non astrae dalla realtà, mediante il processo induttivo, tali concetti universali, ma li pone.
Se causa e sostanza, insieme alle altre categorie, sono modi con cui l’intelletto svolge la propria attività unificatrice (di sintesi) a priori (cioè non attraverso leggi derivate della realtà, che sarebbero a posteriori, ma introducendo l’unità con la sua stessa forma), il fondamento e la dimensione universale e necessaria della conoscenza scientifica sono garantiti: il fondamento è costituito dall’«Io penso», che è lo stesso soggetto conoscente, inteso non come sostanza spirituale, ma come funzione di giudicare (si potrebbe dire che l’Io penso è la struttura «operativa» del soggetto pensante); la dimensione universale e necessaria della conoscenza scientifica si appoggia sul fatto che l’intelletto ha il medesimo funzionamento in tutti gli uomini e che tale modo di funzionare si applica a tutti i casi possibili dell’esperienza.
I principii di causalità e di sostanza permettono di conoscere scientificamente le cose, ma questo modo di conoscere rimane soggettivo, non possiamo dire se esso corrisponde alla realtà, pertanto per Kant non possiamo neppure servirci di questi principii per dimostrare l’esistenza reale di Dio o l’immortalità reale dell’anima.
Come si vede il problema non consiste in una messa in discussione della possibilità di conoscenza in generale, ma della conoscenza metafisica, cioè di quella conoscenza che pretende di andare oltre l’esperienza sensibile.
Ora, in via preliminare si può osservare che Kant si occupa solo della conoscenza scientifica, non della conoscenza in genere; resterebbe quindi da chiedere che valore abbiano i giudizi della conoscenza comune. Ma la contestazione fondamentale che deve essere mossa al criticismo riguarda le premesse da cui muove, che sono:
1. dall’esperienza non si possano ricavare concetti universali e giudizi universali.
Quest’affermazione sarebbe vera se l’uomo fosse solo materia e quindi l’unica facoltà conoscitiva fosse quella sensibile. Ma così non è perché l’intelletto è una facoltà distinta dai sensi esterni ed interni, come risulta dal fatto che le diverse facoltà possono agire in modo non collegato (posso pensare cose che non cadono sotto i sensi o percepire qualcosa senza capire, perché sto pensando ad altro);
2. dato che dall’esperienza non si possono ricavare giudizi universali e necessari che pure esistono, essi devono avere un’origine esclusivamente intellettiva.
Dal fatto che l’universalità e la necessità non hanno un’origine puramente empirica non si può concludere che allora essi sono posti solo dall’intelletto. Esiste una terza possibilità, che consiste nell’individuare l’origine dei concetti e dei giudizi universali nella collaborazione di sensi ed intelletto, collaborazione che è alla base dell’astrazione universalizzatrice.
Il modo in cui tale collaborazione si realizza è stato descritto da Aristotele e dalla Scolastica (in particolare da san Tommaso d’Aquino), toccava quindi a Kant dimostrare che tale spiegazione è assurda, cosa che non ha fatto. L’intelletto non può essere ridotto a una facoltà organizzatrice dell’esperienza sensibile: oltre all’esperienza sensibile esiste anche un’esperienza intellettuale con un proprio oggetto specifico che è l’essere. I sensi ci consentono di cogliere riflessivamente l’idea di essere, ma essa non è prodotta dall’esperienza sensibile.
Se il nostro intelletto coglie l’essere e l’essere non è riducibile alla sola materia, il nostro intelletto è in grado di andare oltre l’esperienza sensibile e di fare metafisica.

 

 

RICORDA

 

«Quanto a Kant […] si è capito (si dovrebbe aver capito) che la sua Critica della ragion pura è intrinsecamente contraddittoria. Giacché egli la espone e fonda in quanto vera in sé nel mentre afferma in via di principio che non esiste il vero in sé».
(Guido Sommavilla, Dio: una sfida logica, Rizzoli 1995, p. 222).

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

S. Vanni Rovighi, Elementi di filosofia, La Scuola 1964, vol. I, pp. 175-177, vol. II, pp. 147-156.
A.L. Gonzalez, Filosofia di Dio, Le Monnier 1988, pp. 84-130.
G. Samek Lodovici, L’esistenza di Dio, [Quaderni del Timone], Edizioni ART 2004, pp. 50-55.

 

 

 

 

IL TIMONE – N. 30 – ANNO VI – Febbraio 2004 – pag. 30 – 31
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