Duecentouno anni fa, nel 1810, Alessandro Manzoni faceva l’esperienza straordinaria della conversione, un’esperienza che segnò la sua vita personale e al contempo la sua opera. Nonostante, infatti, le più diverse letture che sono state date de I Promessi Sposi, il capolavoro del grande scrittore lombardo resta, eminentemente, un’opera fondata sul senso religioso, sulla fede cattolica che Manzoni riabbracciò dopo essersene allontanato durante la sua irrequieta giovinezza. Il giovane Manzoni, sebbene educato sulla base di principi religiosi cristiani e cattolici, era stato irretito dagli ideali illuministici, e si era allontanato dalla pratica religiosa. Viveva a Parigi, insieme alla moglie – la calvinista Enrichet- ta Blondel – quando il 2 aprile 1810, durante i festeggiamenti per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, la folla di popolo che riempiva le strade fu presa dal panico per lo scoppio di alcuni mortaretti e cominciò a sbandare, causando nella calca molte vittime. Alessandro e la moglie, che si trovavano in mezzo alla ressa di persone, furono separati. Il Manzoni, sospinto dalla gente in fuga, si ritrovò sui gradini della chiesetta di san Rocco e si rifugiò in essa. Nel silenzio e nella serenità di quel tempio, egli implorò quel Dio che aveva dimenticato e chiese la grazia di ritrovare la consorte. All’uscita, Manzoni poté riabbracciare la moglie, ma allo stesso tempo si rese conto di un cambiamento avvenuto in lui, che diede il via a un lungo processo di maturazione che lo portò a porre la fede cristiana come suo principale punto di riferimento per ogni tipo di scelta, da quelle morali a quella artistica della grande tradizione ambrosiana e borromaica, che più tardi avrebbe raccontato nelle pagine delle sue opere.
I Promessi Sposi – esito ultimo sul piano artistico della conversione parigina del 1810 – continuano ad essere un classico insuperabile della nostra letteratura, una grande storia cristiana. Niente lo ha potuto demolire, nemmeno la svogliatezza, la superficialità e l’intento critico demolitivo con cui il romanzo è stato proposto nella scuola italiana del post ’68, dove agli insegnanti che proponevano Manzoni con competenza e passione si affiancarono gli iconoclasti che cercarono di ridimensionare, se non di eludere, questo romanzo non gradito.
La vita del Manzoni dopo la conversione fu esatto delle virtù cristiane. Quando morì, i suoi amici, accorsi nell’umile stanza del trapasso, dissero in coro: «Oggi è asceso in Cielo un nuovo santo». Qualcuno in seguito parlò addirittura di aprire una causa di beatificazione, indubbiamente esagerando, mentre più recentemente esagerazioni di segno opposto si sono avute in letture psicologiche del Manzoni che lo presentano come un contagiato da male ereditario, un nevrotico inguaribile e in preda a tormentosi, allucinanti dubbi sulla fede, con un giansenismo mai superato ma solo criptato. La realtà è probabilmente un’altra, e alcuni importanti uomini di Chiesa sono riusciti a metterla in evidenza, come il card i n a – le Giacomo Biffi e soprattutto Albino Luciani, che, prima di andare a Roma a svolgere la sua intensa quanto purtroppo breve missione di Vicario di Cristo, dedicò ad Alessandro Manzoni uno dei suoi articoli su personaggi illustrissimi sotto forma di lettera. Pur condizionato da qualche complesso, dal temperamento e da dolorose vicende familiari, fu un sincero, convinto e grande cattolico. Quale fu la sua vita, lo lasciano intravedere i pensieri tutti evangelici di cui sono pieni i suoi scritti.
Questi, per esempio: «La vita non è già destinata a essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto »; «La disgrazia non è il patire, e l’essere poveri; la disgrazia è il far del male »; «Il solo pensiero di provocar dispute, mi contrista»; «Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande».
Dunque I Promessi Sposi sono l’espressione di una fede religiosa che scruta nel quotidiano, nelle vicende comuni. Un romanzo che venne definito dal suo stesso autore “Storia di povera gente”. Povero l’ambiente principale: montagna, campagna, lago di una Lombardia ancora lontana dal diventare una delle più ricche regioni d’Europa. Poveri i protagonisti: Renzo e Lucia, due bravi e buoni giovani, che chiedono solo di volersi bene. E con loro tanti, tanti altri personaggi, a comporre un variopinto mosaico umano, un mondo piccolo che riflette nella sua semplicità le vicende del mondo grande.
Solo la fede religiosa del Manzoni poteva produrre un romanzo dominato dalla fiducia nella Provvidenza. Lucia, dando l’addio ai suoi monti, piange nel fondo della barca, ma il pensiero ultimo che le si ferma nell’animo è questo: «Dio che dava già tanta giocondità è dappertutto». Riluttante al matrimonio di sorpresa, aveva detto: «… tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà… lasciamo fare a Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo di aiutarci, meglio che non possiamo fare noi, con tutte codeste furberie? ». Renzo, nella boscaglia, «prima di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi si inginocchia a ringraziarla di quel benefizio, e di tutta l’assistenza avuta da essa in quella terribile giornata». Chiusi poi gli occhi, i pensieri premono tumultuosi alla sua mente, ma finisce per predominare quest’ultimo: «Dio sa quel che fa: c’è anche per noi. Vada tutto in isconto dei miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo!». Ancora mezzo affranto e tutto sossopra dopo la corsa e il salto, col quale s’è salvato sul carro dei monatti, «ringrazia intanto alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d’essere uscito d’un tal frangente, senza ricevere male, né farne». E si tiene sempre in questo clima di fiducia. «La c’è la Provvidenza! », dice, prima di spogliarsi a favore dei poverelli degli ultimi denari, alle porte di Bergamo. «L’ho detto io della Provvidenza!», esclama, quando il cugino Bortolo gli assicura aiuto. «Devo ringraziare la Madonna fin che campo! », dice all’amico, di ritorno dal Lazzaretto. E alla fine, cercando con Lucia, trova il succo di tutta questa storia e lo riassume così: i guai, «quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore». D’accordo, in questo, col cardinal Federigo: «far quel che si può, industriarsi, aiutarsi, e poi essere contenti».
«Nelle nostre case quel libro [I Promessi Sposi, ndr] non mancava mai: era un po’ il codice della nostra visione delle cose e della nostra identità».
(Giacomo Biffi, Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Cantagalli, 2010, p. 32).