Una vicenda in cui è possibile dimostrare con buoni argomenti la credibilità dei Vangeli è il processo di Gesù, da collocare, secondo l’opinione oggi dominante, il 7 aprile del 30 d.C. Al di là dei problemi sollevati dagli aspetti tecnici, costituiti dal significato della riunione o delle riunioni del Sinedrio e dalla natura formale del procedimento condotto da Pilato, l’impostazione che i Vangeli e i discorsi apostolici riferiti dagli Atti danno del processo è concorde: essi affermano che l’iniziativa fu giudaica, la condanna e l’esecuzione, dopo molte esitazioni, furono romane. Questa impostazione, che è ribadita con forzature dagli apocrifi, è quella che risulta anche dalle fonti pagane e giudaiche più vicine nel tempo agli avvenimenti: Tacito (Annales XV, 44,5) parla solo dell’esecuzione ad opera di Pilato, lo storico siriaco Mara Bar Serapion, in una lettera al figlio nel 73 d.C., parla solo della responsabilità giudaica, Flavio Giuseppe, in Antichità Giudaiche XVIII, 64 (il famoso “testimonium Flavianum”), la cui sostanziale autenticità è ormai da più parti ammessa, parla di istigazione giudaica e di condanna romana.
Nonostante la sostanziale concordia della tradizione storiografica antica, molti studiosi moderni hanno tentato di ribaltare, fin dagli inizi dello scorso secolo, questa impostazione, attribuendo al potere romano e non all’autorità giudaica l’iniziativa del processo. Gli argomenti sui quali questo ribaltamento è avvenuto sono estremamente fragili, ma sono stati accolti facilmente in gran parte della cultura corrente e nelle ricostruzioni cinematografiche, alimentando l’immagine fittizia di un Gesù rivoluzionario, naturalmente avverso al potere romano e da esso perseguitato.
Al centro del dibattito moderno emerge, esplicitamente o implicitamente, un dialogo che Giovanni (XVIII,31) riferisce come avvenuto fra gli inviati del Sinedrio e Pilato: all’invito del governatore ai notabili giudei di giudicare essi stessi Gesù secondo la loro legge, essi rispondono: «A noi non è lecito mettere a morte nessuno». Questo spiega, secondo i Vangeli, perché Gesù, condannato a morte dal sinedrio per bestemmia, per essersi fatto Figlio di Dio, fu denunciato dallo stesso sinedrio a Pilato per essersi proclamato “re dei Giudei” e, alla fine, condannato con questa motivazione, come risulta da cartiglio posto sulla croce, dal governatore, non convinto, ma desideroso di compiacere la folla.
Secondo gli studiosi moderni che sostengono l’iniziativa romana del processo, la spiegazione di Giovanni sarebbe falsa dal punto di vista del diritto giudaico, ma – e qui si rivela la fragilità delle loro argomentazioni – per motivi del tutto opposti: secondo alcuni, infatti, il Sinedrio non aveva il potere di giudicare e di pronunziare giudizi di nessun genere, secondo altri, invece, il Sinedrio poteva non solo giudicare, ma pronunziare anche condanne capitali. Ma essi sembrano dimenticare – e mi domando in che misura abbia giocato qui una svista dello Juster che, dimenticando per un momento che nel 30 la Giudea era una provincia romana, ne parla come di “un paese autonomo” – che, secondo il diritto romano, attestato in epoca augustea dagli editti di Cirene e, più tardi, da un rescritto di Adriano, da un editto di Antonino Pio e da un passo di Ulpiano in età severiana, i Romani lasciavano nelle province molta autonomia giudiziaria agli organi locali, ma riservavano solo a se stessi la capacità di pronunziare sentenze capitali, il cosiddetto jus gladii.
L’affermazione di Giovanni è dunque perfettamente conforme alla prassi adottata dai Romani nelle provincie e, quindi, anche nella Giudea. Faceva eccezione il diritto – attestato da una iscrizione (Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, VI, 126) – riconosciuto ai Giudei di mettere a morte senza processo lo straniero sorpreso nel Tempio di Gerusalemme, ma si trattava della tolleranza, accordata in certe situazioni, ad un linciaggio popolare (ammesso anche per chi violava i Misteri Eleusini), non della concessione dello jus gladii.
Non fu invece un linciaggio, ma un abuso, quello compiuto da Caifa e dal Sinedrio intorno al 34, con la condanna e la lapidazione di Stefano, e tale abuso fu punito dal legato di Tiberio, Vitellio, nel 36 o nel 37 con la deposizione di Caifa, come fu punito nel 62 da Agrippa II lo stesso abuso compiuto dal sommo sacerdote Ananos con la condanna e l’esecuzione di Giacomo Minore.
La deposizione di Ananos nel 62, se, da una parte, è la più sicura conferma dei limiti dei poteri concessi al Sinedrio nell’esecuzione di sentenze capitali, è anche la conferma, derivata da fonte giudaica (ce la fornisce Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche XX,199 sgg) dell’atteggiamento assunto, secondo la tradizione evangelica, dai Romani nel processo di Cristo e da essi mantenuto coerentemente fino al 62, quando, secondo lo stesso Giuseppe, Ananos dovette aspettare, “come occasione propizia” per colpire il capo dei Cristiani di Gerusalemme, la morte del governatore romano, Porzio Festo, e l’assenza del suo successore, Albino, che non era ancora arrivato.
Tornando al processo di Cristo, e alla versione che di esso danno i Vangeli, non c’è dubbio che, se il Sinedrio, che aveva condannato a morte Gesù per bestemmia, voleva vedere eseguita la sua condanna, doveva ricorrere al governatore romano e doveva camuffare l’accusa religiosa con motivazioni politiche: e qui diventa particolarmente importante l’esitazione che i Vangeli attribuiscono concordemente a Pilato. Gesù aveva predicato per circa tre anni, attirando a sé grandi folle, in una provincia turbolenta, senza che Pilato, che prima e dopo il processo a Gesù aveva colpito e colpì assembramenti di folla sospetti di mene rivoluzionarie, sentisse il bisogno di intervenire. Questo significa che egli era informato della situazione e che aveva appurato che il messianismo di Gesù non era un movimento rivoluzionario e insurrezionale, ma religioso. Fu questo il motivo per il quale, come affermano concordemente i Vangeli, egli resistette a lungo alle pressioni giudaiche, dichiarando che non trovava colpa alcuna nel Nazareno, e, alla fine, cedette, solo per timore di un ricorso a Roma (dove, a più riprese, Tiberio gli aveva dato torto di fronte a rimostranze giudaiche) e per compiacere una folla tumultuante.
LA PASSIONE DI CRISTO
“Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. Spogliatoio, gli misero addosso un manto scarlatto e, Intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra; poi mentre gli si Inginocchiavano davanti, lo schernivano: «Salve, re dei Giudei». E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero indossare I suoi vestiti e lo portarono via per crocifiggerlo”. (Matteo 27,27-31).
BIBLIOGRAFIA
Josef Blinzer, Il processo di Gesù, trad. it, Brescia 19662.
Jean Pierre Lemonon, Pilate et le gouvernement de Judée, Parigi 1981.
Marta Sordi, I cristiani e l’impero romano, Milano 19952, p. 13 sgg.
Dossier: La Passione di Cristo? E’ storia vera
IL TIMONE – N. 31 – ANNO VI – Marzo 2004 – pag. 39 – 41