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12.12.2024

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La custodia della carità
1 Febbraio 2014

La custodia della carità

«La carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio» (CCC 1822).
Vi è un dinamismo che lega tutte le creature e da cui non possiamo prescindere: quello dell’amore. Si può amare in modo sbagliato o riduttivo, ma nessuno vive senza farlo, perché Dio ha fondato le relazioni fra le persone sull’amore. Non ha creato l’amore, ma si è posto Egli stesso come sostanza di queste relazioni. La stessa parola “religione” indica questa profonda “relazione” che non è solo verso Dio, ma anche fra le creature. L’essere umano è fatto di questa relazione, per cui la sua identità coincide non solo con se stesso, ma anche con tutto ciò che egli ama.
«Queste le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma, di tutte, più grande è la carità» (1 Cor 13,13). Perché san Paolo sosteneva che la carità è superiore a tutte le virtù? Perché è essa a dilatare la persona fino a farle includere non solo il prossimo, ma anche il Dio della fede.
«Se non avessi la carità non sarei nulla», dice ancora l’Apostolo (1 Cor 13,2). Questo potrebbe tradursi così: meno amo, meno sono. Ogni incontro diventa infatti, per il credente, occasione per essere di più. Includendo nella propria vita l’altro, si apre una finestra nel nostro cuore, e ciò ne estende le stesse dimensioni. Spesso si ama perché già si ama Dio, ed essendo Dio Charitas per eccellenza, riversiamo sugli altri quello stesso amore che ci proviene da Lui. Tuttavia, anche chi inizia ad amare senza la fede, viene progressivamente trascinato da questo stesso amore verso quella che ne è la sorgente prima: Dio. L’amore verso l’altro, infatti, richiama immediatamente l’amore di Dio in noi, e da questo ne viene ammaestrato. Inizialmente può anche succedere che il primo approccio verso l’altro includa una quota di proprio tornaconto, ma poiché, come dice Paolo, «la carità non cerca il suo interesse» (1 Cor 13,5), se questa comincia a fluire liberamente, essa corregge progressivamente sia la relazione sia il suo soggetto. «La carità garantisce e purifica la nostra capacità umana di amare. La eleva alla perfezione soprannaturale dell’amore divino». (CCC 1827). Ecco perché amando si è educati progressivamente alle virtù: perché «l’esercizio di tutte le virtù è animato e ispirato dalla carità. Questa è il “vincolo di perfezione” (Col 3,14); è la forma delle virtù; le articola e le ordina tra loro; è sorgente e termine della loro pratica cristiana» (CCC 1827).
Anche per l’uomo più disperato e lontano da Dio vi è dunque possibilità di salvezza, perché la sua stessa disperazione lo condurrà a trovare un primo esercizio dell’amore, se non altro per la necessità di essere preso in cura da qualcuno. Col tempo però quella stessa relazione lo conduce per mano fino a prendersi lui stesso cura dell’altro. Dio ha infatti nascosto le chiavi della nostra salvezza non nel nostro cuore, ma in quelle del prossimo che La custodia della carità ci è messo sulla strada. Ecco perché a ogni incontro non dobbiamo mai lasciarci sfuggire l’opportunità di dischiuderne i tesori, altrimenti ci si allontana con la sensazione di tutte le cose non dette e non fatte.
Francesco ha spesso adoperato un termine che supera quello consueto di “servizio”; ha parlato di “custodia della carità”. «È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona con amore… È l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi, come genitori, si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene» (Francesco, 19 marzo 2013).
Perché questo termine supera quello di servizio? Perché nel servizio io mi inginocchio davanti all’altro, e questo certamente mi fortifica nell’umiltà e mi santifica, ma nella custodia l’altro è introdotto direttamente nel mio cuore, è affidato a me, è tutt’uno col mio amore. La custodia va perfino al di là delle opere. Si può custodire anche una persona lontana; nella custodia la si fa vivere dentro di noi, la si porta come in gestazione, la si nutre. È una virtù difficilissima, perché spesso l’altro non ha nessuna intenzione di essere custodito, e scalpita, e si agita nel nostro grembo, perfino lacerandolo, perché se davvero lo si è preso in custodia non lo si può rigettare solo perché recalcitra. Inoltre, questa virtù necessita di un totale dominio del proprio coinvolgimento emotivo e di una totale assenza di aspettative. È questa l’esperienza della maternità della Chiesa in noi, è il fluire della maternità stessa di Dio in noi. Con tutto il prezzo che comporta.

IL TIMONE N. 130 – ANNO XVI – Febbraio 2014 – pag. 61

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