Don Pino Puglisi
Cominciamo dal prete, il primo martire della mafia beatificato dalla Chiesa. Nell’ultimo suo libro Ciò che inferno non è, ne ha tessuto un doveroso tributo Alessandro D’Avenia. Parliamo di Don Pino Puglisi (1937-1993), il parroco di San Gaetano e Maria SS. del Divino Amore nel quartiere Brancaccio (Palermo), ucciso da un killer di mafia il 15 settembre del 1993 e beatificato da papa Francesco il 25 maggio 2013. Il protagonista del romanzo è, infatti, un ragazzo, Federico, che si trova a fare una scelta molto difficile: lasciare la sua comunità portandosi con sé il ricordo di una Palermo “paradisiaca”, oppure rimanere e affrontare le tenebre di una città che lui nemmeno immaginava potessero esistere. Al centro della storia troviamo Don Puglisi, il professore del liceo in cui Federico studia.
È proprio lui, infatti, ad introdurre il ragazzo in questo “lato oscuro” della città.
D’Avenia, professore di Lettere in un liceo, ha avuto l’opportunità di conoscere personalmente il sacerdote che fu anche insegnante dei suoi fratelli. Don Pino Puglisi ha aiutato tanti giovani ad uscire dal tunnel della paura e dell’ignoranza, attraverso una pedagogia attiva, coinvolgente, sofferta. È stata proprio questa la causa che gli ha attirato principalmente l’ira dei boss. Mons. Vincenzo Bertolone, postulatore della causa di beatificazione di Don Puglisi, l’ha definito il “martire del cristianesimo ordinario”.
L’ordinaria-straordinarietà del martirio di Don Puglisi emerge in particolare da quella che è stata l’ultima sua giornata di vita. Nella quale ha celebrato due matrimoni e, di pomeriggio, prima gli incontri di preparazione al battesimo, poi quello al Comune per riuscire ad ottenere, insieme con gli
abitanti della sua borgata, una scuola media per i giovani di Brancaccio. Infine, la convivialità organizzata al Centro “Padre Nostro” per festeggiare il suo 56° compleanno.
L’ultimo giorno in terra di Don Puglisi, quindi, rappresenta l’icona di un modo straordinariamente ordinario di essere prete e cristiano. O che, almeno, dovrebbe, esserlo. Prete antico come mostrano le sue celebrazioni, significativamente nel momento in cui celebrava i matrimoni, per non parlare dei solenni momenti di preghiera o, infine, della tonante predicazione e l’attività di annuncio e catechesi.
Ma anche prete nuovo, perché immerso nel suo tempo, impegnato nel tradurre in scelte sociali e civiche il suo sacerdozio, alimentato da un frequente culto eucaristico che si fa vita e comunità. Di qui la sua difesa della legalità, dei diritti dei giovani e degli studenti, nonché dei disperati di cui cercava di risolvere i problemi nel Centro che ha edificato in una situazione residenziale davvero disgregata.
Il commissario Calabresi
Altro grande uomo e “servitore dello Stato”, come amava definirsi, è il commissario di Polizia Luigi Calabresi (1937-1972), del quale abbiamo più volte scritto su Il Timone.
Per questo motivo ricordiamo qui solo una delle sue più grandi virtù. Cioè la fortezza manifestata durante tutta la campagna di odio e di linciaggio morale che ha dovuto subire da parte soprattutto dei radical chic e della grande stampa, negli anni dal 1970 al 1972. Fu assassinato, nel maggio di quel terribile 1972, da militanti dell’organizzazione comunista Lotta Continua, che gli hanno sparato alle spalle.
Come ha rilevato Marcello Veneziani nella Prefazione al libro Gli anni spezzati.
Il Commissario, il “ritratto” di quest’uomo mite, ligio al proprio dovere e soprattutto “gioioso”, «è un ritratto in piedi. Un uomo che aveva il senso dello Stato, che credeva al decoro delle istituzioni e alla dignità del suo ruolo, che aveva la responsabilità di uomo d’ordine. Un’espressione antica, terribilmente démodé, le compendiava tutte: “servitore dello Stato”. Così si definiva Luigi Calabresi. E chi fa una smorfia d’insofferenza per un’espressione antiquata e retorica, ripensi con rispetto che a quella definizione Calabresi restò fedele fino alla morte. Tutto per 270mila lire mensili…».
Il 4 luglio 1970 Calabresi fu prosciolto dall’accusa di omicidio dell’anarchico Pino Pinelli, precipitato nel 1969 da una finestra della questura di Milano durante un interrogatorio per la strage di piazza Fontana.
«Pinelli si è suicidato», disse il commissario, ma gran parte della società “impegnata” del tempo e dell’intellighenzia la pensò diversamente. Dopo il proscioglimento in sede giudiziaria, oltre 800 intellettuali pubblicarono sul settimanale L’Espresso un messaggio per proclamare che «Calabresi
porta la responsabilità della fine di Pinelli».
Ancora oggi, le “autorevoli” firme di quella “lettera-appello” (cui aderirono, fra gli altri, Norberto Bobbio, Federico Fellini, Liliana Cavani, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Pier Paolo Pasolini, Giulio Einaudi e Margherita Hack), non valgono a dissipare l’amore per la patria e la purezza di un uomo e padre di famiglia che volle vivere una vita «profondamente, integralmente cristiana» come tiene a ricordare ancora oggi don Ennio Innocenti, sacerdote della Diocesi di Roma che è stato suo amico e confessore. Lo stesso don Innocenti ed altri hanno chiesto che sia aperta una causa di beatificazione per lui.
Il giudice Livatino
Tra i laici gioiosi che, alla sequela di Cristo, hanno dato la vita per amore della giustizia c’è anche Rosario Livatino (1952- 1990), giudice-martire ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990.
Fu assassinato a soli 37 anni, mentre, a bordo della sua modesta utilitaria (una Ford Fiesta), senza scorta, si stava recando a compiere il suo dovere nel Tribunale di Agrigento, dove era stato da poco nominato giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione. Nel decennio in cui servì come Sostituto Procuratore della Repubblica ad Agrigento (1979-89), pur occupandosi delle più delicate indagini di mafia, aveva lasciato scritto: «La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali».
La sua vita, che è stata oggetto di volumi, film e rievocazioni pubbliche, fu interamente dedicata alla professione di giudice considerata una missione in favore del bene comune. Apparizioni pubbliche rarissime, mentre della sua attività professionale sono pieni gli archivi del periodo non solo del Tribunale di Agrigento ma anche degli altri uffici gerarchicamente superiori per i quali lavorò.
Dopo esser entrato come uditore giudiziario nel Tribunale di Caltanisetta (1978), scrisse nel suo diario: «Ho prestato giuramento, da oggi quindi sono in Magistratura.
Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento, e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige».
Lavoratore instancabile, Rosario alla mano perseguitò con tenacia la criminalità organizzata di Agrigento, nota come Stidda, contrastandone il traffico di stupefacenti e confiscandone i beni. Denunciò anche i legami esistenti in Sicilia tra la mafia ed alcuni esponenti della politica siciliana.
Dopo l’assassinio dell’amico e collega Antonino Saetta, ucciso da Cosa Nostra con il figlio Stefano il 25 settembre 1988, intensificò il suo impegno anti-mafia e questa sua fedeltà alla coscienza gli costerà la vita. Nel maggio del 1993, nel corso della sua visita ad Agrigento, Giovanni Paolo II incontrò la mamma e il papà del magistrato, definito dal pontefice un «martire della giustizia ed indirettamente della fede». â–
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