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11.12.2024

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La felicità e il bene dell’uomo
31 Gennaio 2014

La felicità e il bene dell’uomo


L’agire morale e le virtù conducono alla piena realizzazione della persona. Sono congeniali alla felicità. Che coincide con la comunione con Dio




Interrogarsi sull’uomo imparando dalla sapienza tommasiana, non è un’evasione erudita nel passato, riservata a pochi esperti; al contrario, significa andare al cuore delle speranze e delle delusioni, della ricerca insonne delle donne e degli uomini di oggi, con la luce del discernimento. Perché escludere la via dell’adempimento di queste aspirazioni, dando credito a una certa cultura mediatica, agli «stolti dotti» (G. B. Vico) che, specie oggi, si dedicano a calunniare la verità?
È in gioco la felicità, non come precario stato psicologico, ma come vita buona, come piena realizzazione della persona: che cosa è per me la felicità? E come posso raggiungerla? Sono domande ineludibili, che ogni essere umano si pone. Ma questa tensione alla felicità in quale rapporto è con il dovere morale?

F. Nietzsche ha lanciato un sfida all’etica, insinuando il sospetto sui giudizi morali: «quale valore hanno in se stessi? Fino a oggi hanno intralciato o promosso il felice sviluppo umano? Sono un segno di angustia estrema, d’impoverimento, di degenerazione vitale? Oppure, viceversa, si rivela in essi la pienezza, la forza, la volontà della vita, il suo coraggio, la sua sicurezza, il suo avvenire?» (Genealogia della morale). Nella prospettiva di S. Tommaso d’Aquino si può rispondere alla sfida di Nietzsche, il cui sospetto condiziona la mentalità e le scelte di non pochi uomini di oggi. Di qui l’apologia contemporanea della trasgressione, come se potesse essere liberante e non, invece, autodistruttiva, come è in realtà.
La ricerca dell’Aquinate fa capire che l’agire veramente virtuoso porta alla «vera felicità», la quale non esiste senza che «l’uomo abbia la convinzione certa di non dover mai perdere il bene che ha» (Somma teologica, I-II, q. 5, a. 4). L’agire morale è quello che conduce a quel fine che è la piena realizzazione della persona; è, dunque, al servizio della felicità. Il pensiero di Tommaso è agli antipodi rispetto alla scissione e all’opposizione tra felicità e dovere morale, sostenute nella modernità – come se tendere alla felicità implicasse trasgredire la vita moralmente buona e i suoi principi morali –, che hanno condotto alla crisi attuale dell’etica, con gravi sintomi di disumanizzazione. Per Tommaso, l’osservanza delle norme morali e l’esercizio delle virtù costituiscono il genere di vita nel quale soltanto il fine principale, o ultimo (nel senso che ogni altro fine che persegue è subordinato ad esso), dell’uomo, cioè la felicità, può essere raggiunto. I doveri che riguardano l’agire dell’uomo in tanto non sono immotivati, arbitrari, repressivi, in quanto sono connessi al suo fine ultimo. In vista del pieno compimento di sé, l’uomo può capire e accettare che i suoi atti debbano essere ordinati per raggiungere quel fine.
Invece, nella modernità il dibattito etico rimane, per lo più, nell’ambito dei problemi di due opposte posizioni, cioè il moralismo legalistico e l’immoralismo trasgressivo, per cui la questione decisiva dell’etica diventa: l’uomo si realizza disciplinando le proprie azioni e passioni, in base alla legge morale (legalismo moralistico), oppure, al contrario, si realizza proprio nel rifiuto e nella trasgressione di ogni regola (immoralismo trasgressivo)?
Ma hanno davvero ragione queste due posizioni che affermano che l’uomo si realizza rimanendo rinchiuso in se stesso, disciplinando il proprio agire (legalismo), o, all’opposto, nel rifiuto e nella trasgressione di ogni norma (immoralismo trasgressivo)?
In realtà, chi pensa di potersi realizzare attraverso il proprio comportamento, ordinato (legalismo) o disordinato (immoralismo trasgressivo) che sia, evidentemente ritiene di non aver bisogno di niente, di nessun bene diverso da sé. Quindi, a ben vedere, quelle due posizioni, pur nella loro opposizione, hanno un presupposto comune, la pretesa autosufficienza dell’uomo. Talché se questo presupposto viene discusso e confutato, entrambe sono superate. In effetti, la persona umana, sia nella sua vita vegetativa (nutrizione, metabolismo, ecc.), sia nell’attuazione delle potenzialità sensoriali e intellettive, smentisce questa pretesa autosufficienza: per realizzarsi la persona ha bisogno, in ogni sua dimensione, di qualcosa, di un bene altro da sé (l’uomo per vivere ha bisogno di tanti beni, come il cibo, ecc.; le facoltà sensoriali e intellettive per attuarsi in quanto conoscenti hanno bisogno di realtà extrasoggettive da conoscere). Ma chi, misconoscendo l’esperienza, si pensa come autosufficiente, con ciò pretende di essere il bene assoluto (che non dipende da altro), il bene supremo e, quindi, il fine ultimo di sé. Infatti, niente se non il bene perfetto può appagare il desiderio, realizzando la persona e costituendo il vero fine ultimo.
Ora, le due posizioni sopra considerate pretendono che l’uomo sia il fine ultimo di sé. In effetti, dice Tommaso, «Se l’uomo fosse l’ultimo fine di se stesso, allora la considerazione e la disciplina delle proprie azioni e passioni potrebbe essere la sua felicità…» (Somma teologica, I-II, q. 3, a. 5, ad 3). Ma i molteplici limiti umani, che dobbiamo constatare, escludono che l’uomo possa essere il fine ultimo di sé, giacché non è il sommo bene, e ciò evidenzia la crisi insanabile di gran parte dell’etica moderna e di chi da essa si fa fuorviare. L’acuta osservazione tommasiana provoca un risveglio dal sonno dogmatico dell’umanesimo ateo: «poiché l’uomo non è il sommo bene […] è evidente che è ordinato ad un fine che non può che essere una realtà altra da sé» (ivi, I-II, q. 2, a 5). Infatti, il fine ultimo dell’uomo non è altro che il sommo bene, poiché «l’appetito umano che è la volontà ha per oggetto il bene universale, o totale» (ivi, I-II, q. 2, a. 7), che non può mancare di nessuna delle perfezioni dell’essere: come dice Tommaso, tutti i beni finiti che conseguiamo (il piacere, il successo, il potere, le cose materiali, ecc.) dopo che li abbiamo raggiunti non ci soddisfano mai pienamente e noi ricominciamo a cercare qualcos’altro: ciò è segno del fatto che il nostro desiderio desidera un Bene Infinito. Perciò il fine ultimo coincide col primo principio dell’essere, che è Dio creatore, nel quale sono tutte le perfezioni dell’essere (cfr. ivi, I-II, q. 2, a. 5, ad 3).

Dunque il fine ultimo, come sommo bene, è il principio di tutto l’ordine etico, il cui senso è di condurre a quel fine. In esso è il criterio radicale per valutare gli atti umani, onde discernere quelli che permettono di conseguire la felicità, la vita buona, da quelli che, invece, sono di ostacolo.
Così, la vita moralmente buona con i suoi criteri morali d’azione è ordo amoris (ordine dell’amore), in primo luogo perché deriva dall’amore generoso e gratuito di Dio verso l’uomo, per cui Egli dona all’uomo, che guida alla vita buona, e inoltre perché è finalizzata a preservare l’amore al bene da ogni possibile corruzione. Giacché l’amore è la prima radice di tutte le emozioni dell’anima e di tutti gli altri moti della volontà, e perciò è di importanza decisiva che sia ordinato, perché può essere rivolto a dei beni apparenti, o tali solo per un certo aspetto, oppure al bene totale sotto tutti gli aspetti.

Come si vede, per intendere chi è l’uomo e come può conseguire la pienezza, bisogna prioritariamente considerare che egli è creatura, dunque la relazione di dipendenza dal Creatore è di importanza decisiva. La prospettiva della creazione – per Tommaso accessibile all’umana ragione, prima ancora che conoscibile in virtù della fede – è a fondamento di una corretta antropologia e dell’etica che ne consegue. Vediamone qualche altro corollario importante.
Ogni essere umano ha bisogno di riconoscimento, cioè di essere riconosciuto e accolto nella propria originalità irrepetibile come un essere che ha una dignità ed esige rispetto. Al di là della precarietà e mutevolezza del riconoscimento sociale, o degli altri uomini, nella prospettiva tommasiana della creazione il riconoscimento essenziale e indefettibile, che non delude, viene ad ogni essere umano da Dio, che lo crea perché lo vuole, lo ama e lo costituisce nella sua intrinseca positività, una positività che dunque deve essere riconosciuta a ogni dimensione dell’essere umano, da quella intellettivo- razionale e volitiva a quella corporeo-sensibile e affettiva.
A tal punto gli esseri umani sono amati personalmente da Dio, che li chiama al godimento di se stesso come fine ultimo. Ora, ricambiare questo amore autentico implica per la persona umana considerare il bene di Dio come suo proprio. Ma, considerare il bene infinito che è Dio come bene proprio, significa per l’uomo liberarsi della prigionia della propria finitezza, aderendo all’Essere infinito e compiacendosi di Lui.
Inoltre, nella prospettiva creaturale c’è l’autentica fondazione della legge morale come doverosa-obbligante ma anche come liberante, come via per la compiuta realizzazione dell’umano. Giacché non mi sono fatto da me, ma sono creato, non dipende dal mio arbitrio la mia natura, la mia ordinazione al fine, la legge che intrinsecamente mi costituisce, perciò quest’ultima è un imperativo che orienta la mia libertà. La quale però può anche rifiutare di aderirvi, ma con esito deludente rispetto alle aspirazioni della mente e del cuore. In questa prospettiva la legge morale non è eteronoma (cioè non mi viene dall’esterno, non mi è estranea, come vorrebbe una critica di Kant), perché scaturisce dalla mia natura, ma non è nemmeno autonoma, perché non ne sono io l’autore, in quanto proviene da Colui che ha creato la mia natura.  



Per saperne di più…

Tommaso d’Aquino, La felicità (dalla Summa theologiae, I-II, questioni 1-5), Introduzione, traduzione, note e apparati di Umberto Galeazzi, Bompiani, 2010.
Giacomo Samek Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, 2002.
Aldo Vendemmiati, San Tommaso e la legge naturale, Urbaniana University Press, Roma 2011.

Dossier: SAN TOMMASO D’AQUINO IL PIÚ GRANDE TEOLOGO E FILOSOFO DI SEMPRE

IL TIMONE  N. 110 – ANNO XIV – Febbraio 2012 – pag. 43 – 45

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