È lui il padre della modernità e del soggettivismo. I suoi nemici giurati sono Aristotele e Tommaso d’Aquino. E la ragione, apostrofata come “prostituta del diavolo”. La volontà individuale diventa il fattore fondamentale dell’esperienza umana, contro l’oggettività della dottrina cattolica
Se quella di Lutero fosse solo una delle tante eresie che hanno flagellato, flagellano e flagelleranno la Chiesa, la si potrebbe usare come caso di scuola per mostrare come la filosofia faccia sempre da cattiva ancella a una cattiva teologia. Ma la vicenda di Lutero è ben altro e ben di più. Il pensiero del riformatore che si ribellò a Roma, e non a una semplice dottrina, si mescola con la sua biografia e ruota attorno all’invenzione di un “io” che travolge tutto quanto trova sul suo cammino, facendo tutt’uno di teologia, politica, diritto, ecclesiologia passando, obbligatoriamente, per la filosofia. Con il dominus della ribellione protestante, irrompe sulla scena lo straripare del soggetto con cui ha inizio la modernità in limpido e dichiarato antagonismo con la visione cristiana dell’uomo e del suo destino.
Dietro al suo tremendo e insaziabile bisogno della giustificazione divina, si mostra senza pudore un ancor più grande bisogno di se stesso. La filosofia luterana, asservita alla rivolta teologica, è tanto elementare quanto brutale nel porre il primato del soggetto. «L’abbiamo già notato», scrive Jacques Maritain nella lucidissima analisi che conduce in Tre riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau, «la dottrina di Lutero non è che l’universalizzazione del suo io, una proiezione del suo io nel mondo delle verità. A questo riguardo, ciò che distingue il padre del protestantesimo dagli altri eresiarchi è che questi ultimi partivano innanzitutto da un errore dogmatico, da una prospettiva dottrinale falsa; qualunque ne sia l’origine psicologica, causa delle loro eresie è una deviazione dell’intelligenza e le loro personali avventure non importano se non nella misura in cui esse hanno condizionato quella deviazione. Con Lutero, è tutto diverso. Sono la sua vita, la sua storia che contano. La dottrina viene per sovrappiù. Il Luteranesimo non è un sistema elaborato da Lutero; è lo straripamento dell’individualità di Lutero».
C’è indiscutibilmente del genio in questo monaco agostiniano tormentato nell’anima e nel cuore fin dalla sua entrata in religione. Ma, fondato su un’individualità preda del volontarismo, può solo essere un genio distruttivo, e lo è anche in filosofia. Anche in questo campo Lutero va diritto sull’obiettivo, che non è una particolare dottrina, ma un intero sistema di pensiero: quello aristotelico. A suo dire, solo per citare qualche esempio, Aristotele è «l’empio baluardo dei papisti », «un briccone che bisogna mettere nel porcile», «il più astuto corruttore delle menti». E San Tommaso d’Aquino «non ha mai capito un capitolo del Vangelo o d’Aristotele». Insomma, «è impossibile riformare la Chiesa se la teologia e la filosofia scolastica non sono strappate fino alla radice insieme al diritto canonico ». Tutto ciò trova inizio nella repulsione per la ragione considerata la «prostituta del diavolo» e «il più feroce nemico di Dio».
Nella filosofia aristotelico- tomista, Lutero vede, o forse più esattamente percepisce, il possente baluardo eretto nei secoli contro lo strabordare di un soggetto teso a farsi misura di tutte le cose. La definizione scolastica di persona, arrivata da Boezio a San Tommaso, che parla di «una sostanza individuale completa, di natura intellettuale e padrona della sue azioni» è quanto di più lontano il riformatore possa immaginare dalla sua vita e dal suo pensiero. Per scardinarla, deve stravolgerne la radice confondendo il concetto di personalità, che si fonda sulla sussistenza dell’anima, con quello di individualità, che è fondata sulle esigenze della materia come principio di individuazione.
Associando nella sua invettiva la filosofia e la teologia scolastiche al diritto canonico, Lutero mostra che il suo problema filosofico consiste nel fondare la ribellione all’autorità. Per questo rigetta la ragione e fa leva solo sull’individuo abbandonato alla prepotenza della “sola volontà”, filiazione diretta del “sola fide”. Se il peccato originale, come lui pensa, ha prodotto un male definitivo che può essere solo coperto da un mantello senza essere vinto, nella vita non ha altra ragion d’essere che il puro volere. Nella visione luterana, la ragione al più potrà aspirare a un compito pratico che accomodi gli affari umani, senza pretesa alcuna in campo speculativo, inabile a indicare un sistema di valori e una morale conseguente. Non vi è ragione che possa governare le opere per il semplice motivo che è inutile, in quanto le buone opere non servono alla salvezza. Anzi, sotto questo riguardo sono cattive e corrotte. «Ma esse», chiosa ancora Maritain, «sono buone, immensamente buone, è il caso di dirlo, per la vita presente. E non potendo essere ordinate a Dio, a che potrebbero essere mai ordinate, se non alla realizzazione della volontà umana? Rousseau è un sognatore, Lutero un attivo».
In tal modo, il padre della riforma protestante pone le basi dell’immanentismo che caratterizza la modernità, secondo cui la verità della vita va cercata all’interno del soggetto e del suo agire: tutto ciò che viene da fuori non può essere autentico e viene concepito solo come minaccia della volontà e del suo dispiegarsi nel mondo. È il fatale esito di un itinerario iniziato con la revoca di ogni mandato metafisico alla ragione. Lutero espone la volontà individuale, spoglia e solitaria, davanti a Dio allo scopo di garantire, con la propria fiducia, la propria giustificazione e la propria salvezza. Sta qui l’eredità filosofica di Lutero. Un lascito molto pratico, come tutto ciò che ha generato il suo pensiero e come tutto ciò che ne è disceso, e che può essere definito come il fatale miraggio della liberazione.
Dom Prosper Guèranger lo riassume così nelle sue Institutions liturgiques al capitolo De l’hérésie antilurgique e de la réforme protestante du XVI siècle: «Venne infine Lutero, il quale non disse nulla che i suoi precursori non avessero detto prima di lui, ma pretese di liberare l’uomo nello stesso tempo dalla schiavitù del pensiero rispetto al potere docente e dalla schiavitù del corpo rispetto al potere liturgico». Poi venne la modernità.
IL TIMONE N. 122 – ANNO XV – Aprile 2013 – pag. 44 – 45
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