Con il lavoro, l’uomo collabora all’opera della creazione, manifesta la sua superiorità sul mondo e si prende cura dì sé, degli altri e delle cose che lo circondano
Capita con frequenza di osservare un profondo squilibrio esistenziale negli uomini di oggi e nelle loro relazioni con il lavoro: si passa da un atteggiamento di malcelata insofferenza verso il proprio lavoro, per cui ogni giorno si aspetta soltanto che finisca per poter passare alle soddisfazioni del tempo libero, ad un modo di lavorare che è invece assolutamente aggressivo e totalizzante, quasi come se fosse l’unica ragione di vita, al punto che la famiglia, se c’è, viene completamente sacrificata e lo stesso tempo libero dal lavoro viene aspettato come un incubo e comunque con una certa tristezza. Per superare questi due atteggiamenti, entrambi sbagliati, è necessario recuperare una corretta idea su che cosa significhi lavorare.
Natura e valore oggettivo del lavoro
L’esperienza del lavoro comporta un aspetto indubbiamente positivo che può essere descritto come l’esperienza della “superiorità” dell’uomo sul mondo: nel lavoro, infatti, l’uomo manifesta la sua capacità di “dominare” il mondo, di “emergere” rispetto agli animali e alle cose, di essere cioè “soggetto” in un mondo costituito da realtà che rimangono semplici oggetti.
L’uomo emerge come soggetto grazie alla principale caratteristica della persona umana: la razionalità. Grazie alla ragione, l’uomo può prendersi cura della terra trasformandola e facendo di essa la sua dimora. Ciò che qualifica il lavoro umano, rendendolo differente dalle attività svolte, ad esempio, dalle api o dalle formiche, non è l’aspetto fattuale e materiale (l’opera del corpo che trasforma la terra), ma l’aspetto progettuale, la ragione che indica il modo giusto di trasformarla.
Nell’esperienza di ogni lavoratore c’è l’idea circa il modo giusto di fare il proprio lavoro, l’idea di un oggettivo fare bene qualcosa, di un modo giusto di entrare in rapporto col mondo esterno: si può dire che il lavoro è orientato a prendersi cura del mondo.
In questo prendersi cura s’incontra il fondamento della dimensione etica del lavoro. Anche quando sembra che l’aspetto del prendersi cura del mondo sia assente, magari perché viene svolto un lavoro spersonalizzante o inappagante, sempre si lavora almeno per guadagnare, per mantenere se stessi e la propria famiglia prendendosene cura. Il lavoro, anche il più umile e sofferto, è orientato verso il mantenimento, verso il “mantenere nell’essere” se stessi e i propri cari.
Perciò si può dire che nel lavoro si manifesta:
a) il valore del mondo, di cui ci si prende cura attraverso l’aspirazione a “far bene” il proprio lavoro;
b) il valore dell’uomo e della famiglia, che meritano di essere “mantenuti” nell’essere. L’orientamento oggettivo del lavoro a tali valori corrisponde al comando divino rivolto all’uomo appena creato: riempite la terra, soggiogatela e dominatela. In questo comando viene svelata la grandezza del lavoro, che si presenta come collaborazione dell’uomo all’opera della creazione (come ha particolarmente e profondamente insistito san Josemaría Escrivà de Balaguer).
Valore soggettivo del lavoro
Nelle azioni umane si possono distinguere due effetti: uno transitivo, cioè la modificazione del mondo esterno, e uno intransitivo, cioè la modificazione all’interno dell’uomo che le compie.
Se, ad esempio, consideriamo un falegname che costruisce un tavolo, i due aspetti emergono chiaramente. Al termine dell’azione, nel mondo materiale si è aggiunto qualcosa, il tavolo appunto. Ma anche nel cuore del falegname è cambiato qualcosa: egli è soddisfatto di fronte all’opera compiuta che lo ha in qualche modo perfezionato e arricchito perché per realizzarla ha messo a frutto le sue doti intellettuali e morali.
La riflessione sull’esperienza del lavoro fa emergere il senso del lavoro sia come prendersi cura del mondo, prendersi cura dell’uomo, sia come perfezionamento e autorealizzazione del lavoratore.
Nel lavoro, tuttavia, accanto a un’esperienza positiva, ve ne è anche una negativa: si tratta dell’esperienza della pesantezza e della fatica che accompagnano il lavoro. Inoltre, accanto all’esperienza soggettiva negativa del lavoro come fatica, c’è anche l’esperienza oggettiva negativa dei guasti derivanti dal lavoro mal fatto, che può danneggiare e distruggere la terra.
Gli aspetti positivi del lavoro, quelli legati alla realizzazione della persona e alla trasformazione positiva, nel senso dell’arricchimento, della creazione, si sono affermati faticosamente e progressivamente nel corso della storia.
Il lavoro nel mondo antico…
Nell’antichità classica, il senso del lavoro veniva riconosciuto soltanto in riferimento alle attività intellettuali. Gli altri lavori venivano considerati indegni degli uomini migliori e riservati ai ceti inferiori, ritenuti meri produttori o, addirittura, agli schiavi. Il nesso tra lavoro-valori-cultura veniva trascurato. Per gli antichi la cultura veniva prodotta nel tempo libero, nell’otium.
Parallelamente all’affermarsi del cristianesimo, si assiste all’affermazione, tra difficoltà e contraddizioni, di una concezione del senso del lavoro, l’idea, come si esprime il beato Giovanni Paolo II (nell’enciclica Laborem exercens), che «il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso ».
…e nelle epoche medioevale e moderna
Nel Medioevo, la regolamentazione dei mestieri e delle professioni, così come l’organizzazione sociale del lavoro, mostrano una tendenza verso l’ideale del senso del lavoro.
Con l’inizio della modernità, dal mercantilismo fino alla prima rivoluzione industriale, inizia a comparire una nuova tendenza: all’idea di “prendersi cura del mondo” si sostituisce quella di “dominare il mondo”, senza vincoli e limiti, per possederlo.
La cultura liberale non nega in genere l’esistenza di valori morali, ma li confina in una sfera separata che non deve interagire con la dimensione economica del profitto.
Il pensiero socialista, invece, che si diffonde in seguito con il dilagare delle conseguenze sociali della rivoluzione industriale, compie un passo ulteriore e nega che esistano valori distinti dal lavorare stesso. Al «lavoro per avere» si sostituisce il «lavoro per il lavoro», secondo la nota affermazione di Lenin per il quale «non si lavora più per vivere, ma si vive per lavorare». In questa visione il fine del lavoro è il lavoro stesso che contiene in sé la possibilità dell’auto-trasformazione della «materia umana» e quindi di evoluzione verso una nuova umanità.
La caduta delle ideologie non è stata sufficiente a ricondurre la cultura occidentale al riconoscimento del fine oggettivo del lavoro e del suo senso. Oggi, per alcuni aspetti, si assiste alla rinascita della mentalità pagana, che affida la realizzazione dell’uomo al tempo libero e vede nel lavoro una parentesi di cui liberarsi al più presto per potersi dedicare ad altre attività.
Il vero significato del lavorare
Per risolvere la crisi del lavoro contemporaneo occorre tornare al senso del lavoro, al profondo legame esistente tra lavoro e valore, a ciò che si può definire il lavoro per essere.
Nella Lettera agli artisti del 1999, il beato Giovanni Paolo II osserva che, anche se non tutti gli uomini sono chiamati ad essere artisti nel senso specifico del termine, tuttavia ad ogni uomo è affidato il compito di essere artefice della propria vita di cui deve fare un’opera d’arte; in ogni attività umana, infatti, si manifesta la connessione tra il mettere a frutto le proprie capacità operative nell’ambito della propria “arte” e la responsabilità del valore morale dei propri atti.
Così, il lavoro ben fatto non è mai frutto solo dell’applicazione meccanica di competenze tecniche, esso è sempre anche una forma d’arte che racchiude in sé la capacità creativa e l’orientamento etico dell’uomo.
RICORDA
«Davvero: se il fatto che Dio ci vede fosse una realtà ben incisa nella nostra coscienza, se ci rendessimo conto che tutto il nostro lavoro, proprio tutto – nulla sfugge al suo sguardo – si svolge alla sua presenza, con quanta cura porteremmo a compimento tutte le cose o quanto diverse sarebbero le nostre reazioni! E questo è il segreto della santità che vi sto predicando da tanti anni: Dio ha chiamato tutti ad essere suoi imitatori; e voi e io siamo stati chiamati affinché, vivendo in mezzo al mondo – da persone qualsiasi –, sappiamo mettere Cristo nostro Signore al vertice di tutte le attività umane oneste».
(Josemaría Escrivà, Amici di Dio, 58).
IL TIMONE N. 116 – ANNO XIV – Settembre/Ottobre 2012 – pag. 32 – 33
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