A quasi centodieci anni dalla loro definizione per mano di san Pio X, le caratteristiche che deve avere la musica per essere adatta al servizio del culto sono ancora giuridicamente in vigore e, diciamolo pure, di scottante attualità.
Pio X, infatti, uomo santamente pragmatico, decise che era giunto il momento di “canonizzare” alcuni principi, in verità giacenti da secoli nel Magistero sulla musica sacra, ma che necessitavano di essere esplicitati alla maniera dei postulati geometrici, come aveva fatto Euclide per le scienze matematiche diversi secoli prima.
Sinteticamente definì che, per poter essere degna del culto, la musica deve essere dotata di santità, universalità e bontà di forme.
La santità resta identificata nel legame indissolubile con la santitàdel culto stesso e pertanto di norma la musica è santa quando è aliena da tutto ciò che è profano e quando rispetta i testi sacri che mette in partitura.
La bontà di forme possiamo indicarla come presupposto a garanzia dell’arte vera, quale segno evidente del Sacro e introduzione al Mistero celebrato, attraverso il Bello.
L’universalità sottintende che nessun fedele possa restare sconcertato dalla musica in chiesa: scriveva Papa Sarto che non si dovesse provare «impressione non buona», allontanando così accuratamente dai compiti della Chiesa il dare iniziazione a determinate tendenze estetiche od orientamenti del gusto. Non è il caso di soffermarsi sull’osservanza oggigiorno di tali principi normativi in quanto tali (benché Pio X li specificasse nel Motu proprio Tra le sollecitudini, quale «codice giuridico della musica sacra») e tralasciamo pure il diffuso decadimento delle caratteristiche di santità, vista la moltitudine di testi erratici ed erronei, e di artisticità, considerati i molteplici esiti banali del repertorio che ha caratterizzato la musica sacra e liturgica dagli anni della riforma.
Sorvolando pure su alcune polemiche sortite a causa di certe interpretazioni del concetto di “inculturazione”, soffermiamoci soltanto sull’universalità perché negli ultimi tempi si moltiplicano le voci affinché sia accolta al servizio del culto musica priva di tale requisito in modo evidente.
Personalità del mondo culturale cattolico, in altri campi anche autorevoli, suggeriscono di portare all’interno della Liturgia il linguaggio della c.d. musica contemporanea colta, ovvero la dodecafonia, alla maniera di Schoemberg, frutto di una sperimentazione musicale che ha connotato gran parte del Novecento, poiché i tempi sarebbero maturi, argomentando che anche Palestrina all’epoca sua era un avanguardista.
Posto che non risulta dai recessi delle cronache cinquecentesche questa visione così ardita del prenestino, va detto che in tanta musica del XX sec. non solo non v’è alcun riferimento alla radice gregoriana della musica liturgica o anche solo latamente a certo milieu sonoro della musica di chiesa, ma non v’è nemmeno aggancio a un sistema armonico naturale.
E tralasciando l’assoluto sconcerto (tanto ben evidenziato da Alberto Sordi nel vecchio film “Vacanze intelligenti”) o anche solo la renitenza, che pure in un pubblico provveduto provocano tuttora i concerti di musica contemporanea, come si potrebbe pensare di inserire tali composizioni in sede liturgica senza fare del culto un laboratorio di cerebrale e accademica sperimentazione, fine a sé stessa?
Illustri musicisti affermano che anche nei curricola del Pont. Istituto di Musica Sacra sarà presto inserita la composizione sperimentale. Ma non è forse noto che ormai i nuovi linguaggi musicali, tralasciato il suono (ormai obsoleto e inesorabilmente demodé), si occupano del rumore e degli effetti che possono sortire dalla manipolazione di esso, mediante le più avanzate tecniche informatiche? Sbarcheranno fra qualche anno sintetizzatori e computers in chiesa a sostituire le chitarre, fin troppo consonanti? Non è il caso di giudicare qui se lo stile di Berio, Varèse, Stockhausen o delle correnti più avveniristiche sia compatibile con il culto cattolico: è materia di troppo dense significazioni estetiche ma il rebus potrebbe risolversi – forse in modo più terra terra, ma certamente efficace – con il buon senso e l’applicazione dei postulati di Papa Sarto.
Criteri che ispirarono la Sacra Congregazione dei Riti nel 1938 nel vergare il responso al quesito posto dall’ingegner Hammond, inventore del famoso ed omonimo “organo” che già spopolava in America alla radio, circa un suo inserimento nelle chiese a servizio del culto, occhieggiando al colossale affare, da buon americano. Scoperto che l’Hammond non era un organo propriamente detto, ma un elettrofono, la Congregazione, pur riconoscendo che poteva far risparmiare rispetto ai costosi strumenti a canne, oppose un gentile ma fermissimo “Negative”, argomentando che, per quanto criteri di economicità potevano trovare asilo nelle istanze cattoliche, il culto era cosa ben diversa dall’intrattenimento, folk o aristocratico che fosse. Lo è ancora.
IL TIMONE N. 119 – ANNO XV – Gennaio 2013 – pag. 47
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