Federico Baiocco, medico del Fatebenefratelli di Roma, racconta la sua esperienza accanto agli infermi che vanno a Lourdes, sperando in una carezza di Maria che li possa guarire o almeno consolare. Come dimostra l’incredibile vicenda del fondatore dell’Unitalsi, Giovanni Battista Tomassi
«Vorrei rispondere come credente, più che come medico». Esordisce così Federico Baiocco, 58 anni, ginecologo all’ospedale Fatebenefratelli di Roma e responsabile nazionale dei medici dell’Unitalsi che ci tiene a specificare: «sono prima di tutto un volontario». E non potrebbe essere altrimenti, perché sono passati 42 anni da quando per la prima volta, da giovane scout, è salito su un treno targato Unitalsi con destinazione Lourdes per accompagnare un gruppo di ammalati senza sapere che avrebbe speso la sua vita proprio a prendersi cura dei sofferenti.
Il Santuario mariano di Loudes non è soltanto la meta privilegiata dei pellegrinaggi Unitalsi, è il cuore vivo e pulsante di una realtà che, dopo 110 anni, porta fiumi di pellegrini oranti sotto la Grotta di Massabielle, condividendo sofferenza e cammino. Un pellegrinaggio perpetuo che non sembra conoscere crisi, nonostante oggi siano molte le mete mariane e sia sempre più facile raggiungerle, allora perché scegliere proprio Unitalsi per andare a Lourdes?
«Lourdes è la culla dell’Unitalsi, e quando mi vien chiesto di parlare di cosa facciamo non posso non percorrere con la mente il viaggio di Giovanni Battista Tomassi, il nostro fondatore. Figlio dell’amministratore dei Principi Barberini di Roma, Giovanni aveva appena 13 anni quando gli fu diagnosticata una forma artritica acuta e irreversibile che lo costrinse in carrozzella. Sofferente e pieno di rabbia, a 23 anni decise di partire per Lourdes con un’intenzione ben precisa: se non avesse strappato la grazia alla Madonna ottenendo la completa guarigione, con un gesto clamoroso di oltraggio e sfida, si sarebbe suicidato proprio ai piedi della Vergine. Partì portando in tasca non la corona del Rosario, ma la pistola con la quale era pronto liberarsi dalle sofferenze e insieme dalla sua stessa vita. Ma come spesso succede, a Lourdes si trova molto più di quello che si va cercando. Carlo Cosantini, che era in viaggio con lui e nel 1909 divenne vicepresidente dell’Associazione, ricorda il suo sguardo descrivendolo come truce e sprezzante, poi racconta che durante il viaggio la rabbia sembrava trasformarsi in smarrimento, sconcerto, impenetrabile. Tomassi non ottenne la guarigione e, nonostante avesse una pistola carica a portata di mano, non attuò il suo proposito di togliersi la vita. Il perché lo spiegherà lui stesso a un certo don Angelo Roncalli, allora segretario del vescovo di Bergamo Giacomo Maria Radini Tedeschi: “Ha vinto la Madonna. Tenga, non mi serve più! La Vergine ha guarito il mio spirito. Se Lourdes ha fatto bene a me, farà bene a tanti altri ammalati”. Questo è l’inizio di Unitalsi, tanta strada è stata percorsa ma il miracolo di Lourdes resta invariato: ci si mette in viaggio, ci si lava, ci si purifica, si ritrova la linfa della vita».
Il mistero del dolore interpella ogni uomo e scava nella sua anima toccandolo negli abissi. Anche i più lontani dalla fede, quando la sofferenza fisica si fa insopportabile, sentono l’istinto di rivolgersi a Dio, come mai?
«La sofferenza fisica è quella maggiormente insopportabile perché inaccettabile. È quella che chiede aiuto ad altri, e quando non riesce a trovare una risposta, allora scatta l’istinto di rivolgersi a Qualcuno di più grande che possa dare questa risposta. E questo vale anche e soprattutto per chi è lontano dalla fede, perché in quel caso diventa evidente che si sta cercando una risposta che la natura umana non può dare. Poi c’è anche la sofferenza psichica, o meglio la disabilità cognitiva che paradossalmente risulta più accettabile ma lo stesso pone, principalmente i familiari, di fronte ad una domanda cui sembra impossibile rispondere e per questo si cerca più in alto».
L’immagine del Cristo medico è quella che maggiormente è impressa nella tradizione cristiana degli inizi ed è anche una delle immagini che ci fanno pensare ai miracoli: Gesù è colui che guarisce dai mali, ma è soprattutto colui che libera dal male. Che cosa cercano e trovano gli ammalati nei pellegrinaggi’
«Chi parte cerca innanzitutto una possibilità di incontro, con se stesso, con la malattia, con gli altri, con un messaggio mariano che può dare se non la guarigione, sicuramente l’accettazione della propria condizione, ma soprattutto chi parte cerca qualcuno con cui condividere un tratto del proprio cammino. Spesso gli ammalati non partono chiedendo la guarigione, ma offrono la propria sofferenza chiedendo il miracolo per qualcun altro. Nel nostro lavoro di volontari ogni giorno cerchiamo di imparare da Cristo medico, e per farlo il primo atteggiamento è quello di condividere, compatire, “patire con” la persona che ci sta davanti. Non è facile, perché implica il dimenticarsi completamente del proprio io per abbracciare una sofferenza che non si conosce, eppure solo in questo modo si riesce ad alleviare il dolore. Per questo non dico mai “sono un medico e sono qui a fare servizio di volontariato, bensì il contrario: sono qui per ascoltarti e servirti, poi sono anche un medico”. Nei primi anni, chi partiva aveva bisogno di incontrare gli specialisti e avere un parere in più sulla propria patologia, c’era il bisogno di informarsi. Oggi non è più così, il pellegrino è spesso preparatissimo sul fronte medico e ci chiede di più: di viverla con lui. Ecco perché dobbiamo imparare a metterci nei panni degli ammalati. Come medico dico sempre all’ammalato che deve essere paziente non con me, ma con la sua malattia, e noi dobbiamo essere pazienti insieme a lui».
Gesù è medico nell’anima e nel corpo; è possibile lenire le piaghe dell’anima a chi è dilaniato dalle sofferenze del fisico e sa che non c’è via umana di guarigione dalla malattia?
«Bisogna innanzitutto dire che non è facile farsi accudire, soprattutto quando diventa chiaro che è una condizione che non avrà termine. Quando penso alla vita terrena che volge al termine e ricordo le persone che ho incontrato realizzo una cosa: che alla morte bisogna prepararsi in vita, sciogliere i nodi quando ci si mettono davanti senza aspettare, fare quello che è giusto giorno per giorno. Solo in questo modo, e pregando molto, possiamo arrivare sereni di fronte alla morte».
IL TIMONE N. 126 – ANNO XV – Settembre/Ottobre 2013 – pag. 42 – 43
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