Se la libertà viene separata dal bene, se non conta ciò che si sceglie ma solo scegliere, la libertà porta in sé un destino di morte e conduce una civiltà al suo spegnimento.
Libertà sganciata dal bene
Che cosa rende il costume laico occidentale tanto attaccato – quasi avvinghiato – a determinate forme di comportamento, a determinati stili di vita, divenuti ormai tabù che è impossibile discutere, ma è possibile solo «rispettare» come forme ovvie del nostro vivere pluralista e tollerante? C’è qualcosa che accomuna le questioni dell’identità sessuale, della relazione tra i sessi, dell’aborto, dell’eutanasia? O, ancora, c’è un’idea dominante nella visione morale occidentale contemporanea?
La risposta non sembra difficile: è l’idea che tutti gli ambiti dell’esperienza umana non siano altro che esercizi di libera scelta e perciò siano interamente «a disposizione». Il comune denominatore è insomma la persuasione che sessualità, affetti, paternità/maternità, vita, morte sono campi di esercizio della libertà, in cui il soggetto moderno (o quel che resta di esso) gioca tutta la sua consistenza e dignità. La difesa della libertà è, infatti, l’argomento pubblico per eccellenza a sostegno della temporaneità dei legami affettivi, dell’equivalenza antropologica e morale delle identità sessuali (etero/omo/bi/trans), della fecondazione tecnologica, dell’aborto procurato, della liceità dell’eutanasia. E dunque sono scelte da difendere ad oltranza – costi quel che costi –, perché ne va della libertà degli individui e delle conquiste della modernità. Argomento che si impone anche a chi non condivide tali scelte e stili di vita, ma, in quanto scelte possibili, è pronto a riconoscerne il valore equivalente: io non sono così, non faccio così, ma ogni scelta vale a pari titolo di ogni altra.
L’importante è scegliere, non ciò che si sceglie
Ciò significa che sul contenuto della scelta è prevalsa ormai la forma della libertà: non conta se ciò che è scelto è bene o male, ma solo se è stato scelto, è la forma dell’essere scelto che attribuisce valore al contenuto. Indifferenza del contenuto dunque e trionfo della forma: la libertà come potere di scelta diventa l’unica origine del valore. Alle spalle sta la cancellazione dell’idea della libertà come adesione al bene, essendo lo stesso scegliere l’unico bene. Per questo i dibattiti sui temi etici del nostro tempo sono spesso dialoghi tra sordi: per quanto sforzo ci si metta a richiamare alla realtà dei fatti, alle ragioni delle cose, al fine della persona, al bene comune, se il valore è la libertà di scelta, non ci sarà argomento in grado di persuadere di alcunché, perché esiste un argomento unico e monotono, vincente e sempre pronto: il primato della libera scelta.
Libertà sganciata dalla verità
Questo – a ben vedere – è anche l’unico criterio che sta a capo del rispetto, del dialogo, della tolleranza, insomma dei maggiori valori pubblici dell’Occidente progredito, il cui contenuto non è infatti che lo spazio neutro delle opzioni; si dialoga per dialogare: non vorremo farne una questione di verità! Dove incontrare ormai un dibattito che discuta del bene/male di un certa scelta e dunque dove trovare una qualche preoccupazione per la buona o la cattiva sorte di chi la compie? Si fa irreperibile l’interesse per la giustezza delle cose e per il destino delle persone; basta che siano libere: l’indifferenza ostentata per il contenuto diventa indifferenza sostanziosa per le persone. Anzi, ogni apprezzamento di valore dei contenti può essere considerato già una mancanza di rispetto, quasi un’offesa.
Non si dica che si vuole mettere in questione il valore della libera scelta, del rispetto, del dialogo, della tolleranza. Non intendiamo precipitare nel non senso dell’imposizione e dell’autoritarismo. Le tesi sono altre: è che l’idea delle libertà si sta sempre più riducendo ad un significato unico ed isolato, astratto e vuoto; che questo sembra essere l’ultimo fondamento di valore del costume occidentale; di cui esso peraltro va orgoglioso e a cui è attaccato come ostrica allo scoglio, quasi per non sprofondare del tutto nel nulla, senza rendersi conto che è lo scoglio stesso che sta andando a fondo, portandosi nell’abisso il suo affezionatissimo mollusco.
Se la libertà è solo libera scelta, conduce una civiltà al suo spegnimento
Lo sganciamento del libertà dal bene, da un bene che non sia essa stessa – ma qualcosa che sta oltre la libertà e con cui questa ha da misurarsi –, non mette solo la libertà in una condizione di sterile astrattezza, non solo la rende ripetitiva ed innamorata di se stessa, ma la condanna a morte, perché una libertà così ridotta porta in sé un destino di morte.
Questa fatale destinazione non è evidente; anzi, l’ebbrezza libertaria dà l’impressione di forza emancipata, di vigore intraprendente: non può fare finalmente ciò che vuole, non è definitivamente libero l’arbitrio? Invece, ciò che è in gioco supera di molto l’impressione psicologica di «sentirsi» più liberi ed innesca un processo che conduce ad inesorabili conseguenze. Si tratta cioè di logica: una libertà che afferma anzitutto se stessa porta in sé un principio suicidario ed un costume sociale conforme conduce una civiltà al suo spegnimento.
Si parla talvolta della «cultura di morte» che pervade il nostro tempo: stiamo dicendo che il suo principio è la contraddizione mortale in cui si viene a trovare una certa pratica della libertà. A che cosa si riduce una astratta libertà di scelta? È semplice: alla capacità di scegliere, al potere della scelta. Al potere del sì e del no, di questo piuttosto che quello. Potere identificante ed esaltante: quando un bimbetto dice il suo primo «no», qualcosa di nuovo capita nell’universo, un’identità nuova ha cominciato ad affermarsi. Ma se crescendo, lo stesso bimbetto non continuasse a dire altro che sì e no, senza curarsi del valore delle cose in gioco, senza passione e dramma per il suo stesso bene, ma solo per la soddisfazione di esercitare il suo potere cui ormai ha preso gusto, sempre più arroccato nell’idea che questo sia l’unico bene da difendere verso tutto e contro tutti, non diventerebbe in breve un essere odioso, e poi, crescendo nel potere della sua disposizione (tecnica, politica, culturale), anche pericoloso e infine terribile?
Terribile in ultima istanza verso se stesso, perché finirebbe per non potersi sottrarre – prima o poi – alla condizione di dover dare la prova della sua signoria assoluta. La crescita stessa del suo potere – di quello tecnologico, ad esempio – lo costringerebbe ad un pensiero sottile, strano, ma perfettamente coerente con la sua logica di vita, inchiodandolo ad un destino oggettivo ed inesorabile: solo un gesto estremo ha il potere di dimostrare che il dominio totale della libertà di scelta non è un assurdo, ma è il vero, unico assoluto bene. Ma tale gesto appartiene pur sempre ad un essere finito, che ha perciò il difetto di non essersi dato la vita: in queste condizione dimostrare il proprio potere totale sulla vita che non ci si può dare può avvenire in un unico modo, quello di togliersela.
Due esempi: I demoni e il film Mare dentro
Il pensiero non è nuovo. Lo ha già formulato Dostoevskij con un personaggio de I demoni, che dà corpo a questa straordinaria intuizione del nesso che può legare la libertà alla morte. Si tratta dell’episodio dell’ing. Kirillov, che volendo dimostrare l’inesistenza di Dio quale condizione della propria radicale indipendenza, ritiene che solo il suicidio sia l’opera dimostrativa adeguata: solo in quell’attimo infatti, attraverso l’esercizio del pieno potere sulla propria esistenza, avrà realizzato la perfetta equivalenza tra la propria libertà e la propria esistenza.
L’ateismo libertario di Kirillov non è un’esasperata ed eccentrica icona letteraria russa. Il protagonista dell’interessante film «Mare dentro» del regista spagnolo Amenabar – che tratta il caso dell’eutanasia – senza saperlo ripete con precisione il ragionamento dell’ingegnere, eroe suicida. Il protagonista è un personaggio postmoderno, che non ha il problema di dimostrare ciò che è evidente, cioè che Dio non esiste, ma ha il problema di dimostrare il diritto della propria libertà. È un eroe borghese, che non vuole instaurare un nuovo ordine del mondo; gli basta rivendicare il diritto di regolare i conti con la sua condizione di paraplegico. Ma in questo vuole essere totalmente il libero centro del suo mondo. Il suicidio assistito richiesto non è un atto di protesta: la famiglia lo ha sempre accolto e curato nei suoi ventotto anni di infermità; intorno a lui si anima la vita: ben due donne – l’una colta e raffinata, l’altra popolare e appassionata – si innamorano di lui; viene pubblicato un libro delle sue belle poesie e diventa anche famoso. Il caso insomma non è pietoso; è piuttosto il lucido perseguimento dell’idea che già fu dell’ing. Kirillov: che la propria libertà sia tanto estesa quanto la propria vita; ma siccome non tutto è a disposizione, c’è una sola scelta risolutiva, il suicidio. Kirillov aveva già capito una cosa in più: che la logica di questa libertà non vale solo per i paralitici; che in gioco non sono solo i casi estremi, ma che c’è un gioco della libertà che in ogni caso la conduce all’estremo.
È tempo di svegliarsi: sotto la coltre del politicamente corretto pulsa troppo spesso una libertà disperatamente attaccata a se stessa, che tutto dispone e che è disposta a tutto, anche di pagare il suo prezzo con la sua stessa vita. Una libertà che porta in sé un segreto destino di morte.
Ricorda
«Dietro il radicale desiderio di libertà dell’evo moderno sta ben chiaramente la promessa: diventerete come Dio. […] il fine implicito di tutti i movimenti di liberazione moderni è di essere finalmente come Dio, non dipendenti da nulla e da nessuno […]. L’errore originario […] sta nell’idea di una divinità concepita in modo puramente egoistico. Il Dio così inteso non è un Dio, ma un idolo, anzi l’immagine di colui che la tradizione cristiana chiamerebbe il diavolo – l’antidio –, poiché in esso si rinviene proprio l’opposto radicale del vero Dio: il vero Dio è per sua essenza totalmente “essere per” (Padre), “essere da” (Figlio), ed “essere con” (Spirito Santo)».
(Joseph Ratzinger, Libertà e verità, in La via della fede. Le ragioni dell’etica nell’epoca presente, Ares 20052, p. 27)].
Bibliografia
Francesco Botturi (a cura di), Soggetto e libertà nella condizione postmoderna, Vita e Pensiero 2004, pp. 125-147.
Carmelo Vigna (a cura di), La libertà del bene, Vita e Pensiero 1998.
Joseph de Finance, Esistenza e libertà, Libreria Editrice Vaticana 1990.
Dossier: La libertà: dono inestimabile
TIMONE – N. 45 – ANNO VII – Luglio-Agosto 2005 – pag. 39-41