Nel corso del tempo, la Chiesa ha via via sviluppato forme proprie di culto utilizzando e trasformando il materiale proveniente dalla cultura contemporanea. In questo processo, il secolo IV rappresenta un momento di sviluppo straordinario, grazie anche alla promulgazione nel 313 dell’Editto di Milano ad opera di Costantino e Licinio, e della legislazione favorevole al cristianesimo che ne seguì.
Il passaggio da una situazione di persecuzione a una di “quasi Chiesa di stato” si manifesta esteriormente in vari modi. Uno dei più sintomatici è la costruzione di sontuosi luoghi di culto: le basiliche. Inoltre, bisogna aggiungere come Costantino riservò ai vescovi un trattamento speciale, insignendoli della dignità di altissimi funzionari dell’impero e conferendo loro privilegi e distintivi propri dei gradi superiori della corte: l’uso del pallio, dei sandali, della dalmatica da portare sotto la pianeta. È importante notare che nella Chiesa, a differenza di ciò che accade nella società, le suddette insegne rimangono immutate, si istituzionalizzano, vengono stilizzate e così diventano segni di una cultura non più civile, profana, ma puramente simbolica, sacra.
Nell’atmosfera creata dalla pace e dalla benevolenza dell’impero, la celebrazione dei misteri di Cristo si sviluppa verso forme che determineranno poi la nostra liturgia.
In particolare, è in questo periodo che la domenica si impone, viene riconosciuta dalla società e dallo Stato, tanto che l’imperatore nel 321 dichiara con una legge civile la domenica giorno di riposo. Inoltre, abbiamo la fissazione delle feste più importanti: la domenica di Pasqua è la grande solennità annuale, che ormai si estende sempre più chiaramente alla Pentecoste, ed è preceduta dal tempo di preparazione, che nel IV sec. divenne definitivamente di 40 giorni (Quaresima). Anche le solennità dell’Epifania e del Natale, sebbene abbiano origine nel III sec., in senso esplicito possono considerarsi creazioni del IV sec., così in conseguenza del consolidamento di queste feste cresce l’anno liturgico, con l’esplicitazione progressiva delle diverse tappe nelle quali il Signore ha compiuto l’opera della salvezza.
Altro fenomeno rilevante è la sedimentazione nella professione di fede recitata all’interno della liturgia, il Credo, delle conoscenze teologiche acquisite nei concili. Tale processo sottolinea mirabilmente la veridicità della connessione esistente tra fede insegnata e fede celebrata, fra dottrina e liturgia, sintetizzata dall’adagio di Prospero d’Aquitania, lex orandi-lex credendi.
Ma questo è anche il periodo della differenziazione nella liturgia. Hanno così origine, nell’ambito della stessa lingua, della stessa provincia, della stessa cultura, forme diversamente caratterizzate. Le sedi minori seguono l’esempio delle sedi maggiori centrali. Da un fondo comune apostolico, attraverso una libertà assai ampia, si giunge a una uniformità relativa nell’ambito della stessa provincia, secondo il modello delle metropoli o sedi patriarcali. Per l’Oriente si hanno due famiglie: l’Antiochena-siriaca del IV sec., sottodistinta a sua volta in Siro-occidentale: antiochena in senso stretto, maronita, bizantina, armena e Siro-orientale: nestoriana, caldaica, malabarense; e l’Alessandrina che conosciamo nelle sue forme medievali di copta ed etiopica.
In Occidente, studiosi come Steuart e Jungmann parlano sostanzialmente di due soli tipi ben distinti: il rito romano e il rito gallicano, facendo ricadere il rito mozarabico, il rito africano e il rito celtico nel tipo del rito gallicano, in quanto questi presentano solo differenze locali di poca importanza. Quanto al rito ambrosiano, si sottolinea come questo possieda caratteristiche sia del rito romano sia di quello gallicano, dovendosi propendere infine per una sostanziale impronta gallicana.
La creazione di forme tipicamente occidentali ha come prima condizione e fondamento la lingua latina, ormai cristianizzata e diventata di uso comune dappertutto. A questa si aggiunge il dato di fatto di un “movimento liturgico” quasi universale in Occidente. Qui, infatti, all’infuori della prece eucaristica rimasta unica, si sono sviluppati molteplici elementi ambientali: 1) oratio (collecta); 2) oratio super oblata; 3) prefatio; 4) prece eucaristica (in prevalenza unica, quella romana: il cd. Canon romanus); 5) oratio post communionem; 6) oratio super populum. Entro questo schema si compongono liberamente innumerevoli orazioni.
La strada seguita da questa evoluzione è la seguente: agli inizi si improvvisa; poi le orazioni ben riuscite vengono apprezzate, ripetute, raccolte, copiate da altri. Quindi si formano dei “libelli sacramentorum”, cioè dei fascicoli contenenti i testi necessari per la celebrazione di una solennità. Messi insieme, questi libelli formano poi un “sacramentarium”, cioè il libro nel quale il sacerdote trova tutto quello di cui ha bisogno per la celebrazione dei sacramenti nel corso di un anno. Tale fenomeno avviene senza alcuna pressione da parte dell’autorità, sebbene col tempo i vescovi insistono sul fatto che prima di usare i testi il sacerdote consulti i “fratelli più dotti” (Concilio di Ippona del 393, can. 21).
In conclusione, si può affermare che nel corso di questa evoluzione comune all’Occidente intero si siano formati dei tipi differenti: il tipo romano, caratterizzato da una prece eucaristica unica, invariabile se non in poche parti; il tipo gallicano: caratterizzato da un’unica prece eucaristica composta da molti elementi variabili. Anche nello stile si nota una differenza notevole: quello romano è piuttosto breve e molto sobrio; l’altro più vivo, più movimentato e spesso più lungo.
IL TIMONE – Marzo 2014 (pag. 47)