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13.12.2024

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La marcia su Roma
31 Gennaio 2014

La marcia su Roma

Il prossimo ottobre cadranno 90 anni dalla Marcia su Roma. Un avvenimento che cambiò la storia d’Italia. Studiato senza il necessario distacco, quindi mal compreso, il fascismo ancora oggi divide e rimane oggetto di un’attenzione solo ideologica

Alla fine del 1921, il quadro politico, in Italia, presenta un centro liberale guidato da Francesco Saverio Nitti (1868-1953) e da Giovanni Giolitti (1842- 1928), debole ma appoggiato dai cattolici del Ppi, il Partito popolare italiano fondato nel 1919 da don Luigi Sturzo (1871-1959); una sinistra aggressiva e violenta, ma divisa fra il Partito socialista di Filippo Turati (1857-1932) e Treves (1869- 1933), tendenzialmente riformista; dall’altra i comunisti del PCd’I, il Partito comunista d’Italia, fondato a Livorno il 21 gennaio di quell’anno dal gruppo di Amadeo Bordiga (1889-1970) e Antonio Gramsci (1891-1937), ispirato alla “rivoluzione d’ottobre” che in Russia, nel 1917, ha demolito il potere degli Zar assassinandone l’ultima famiglia; infine ci sono i fascisti, non certo meno violenti e meno determinati dei “rossi”, ma dei quali la monarchia e gli industriali non si fidano fino in fondo, poiché la loro matrice è pur sempre repubblicana e socialista.
È in questo quadro che Benito Mussolini (1883-1945) firma con Turati, di fronte al Presidente della Camera Enrico De Nicola (1877- 1959), il “patto di pacificazione” con i socialisti, e scatena subito dopo le “squadre” contro i comunisti e le Camere del Lavoro, emanazione del sindacato CGL (Confederazione generale del lavoro) controllato dal PCd’I. Ciò finisce per vincere le esitazioni degli industriali e degli agrari, che prendono a finanziare senza limiti e ad appoggiare senza condizioni i fascisti, dando ordini in tal senso ai direttori della grande stampa da essi controllata.

Il fascismo nasce a sinistra
Mussolini, che ha soltanto 38 anni, è entrato nell’agone politico con il convegno di piazza San Sepolcro, a Milano, del 23 marzo 1919, allorché, seguito da un gruppo di ex combattenti della Grande Guerra e di intellettuali, tra i quali il fondatore del Movimento futurista Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), ha dato vita ai Fasci di combattimento. La riunione si conclude con il conferimento a una ristretta commissione dell’incarico di elaborare una sorta di decalogo dei Fasci di combattimento, decalogo che verrà pubblicato il successivo 6 giugno sul Popolo d’Italia, il quotidiano diretto da Mussolini, e conterrà alcuni punti persino sorprendenti per la loro modernità. Ad esempio, la richiesta di estendere il voto alle donne e ai diciottenni, l’istituzione dei minimi salariali, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, l’obbligo di assicurazione per invalidità e vecchiaia, l’abolizione del Senato, definito «un organismo feudale ». In campo economico, un netto orientamento di sinistra: durissima imposta progressiva sul capitale (vera espropriazione della ricchezza) e lotta ai profitti di guerra.
Le illusioni sansepolcriste si dissolvono rapidamente. Già il 10 aprile, a Roma, il Partito socialista, per vendicarsi del governo che gli ha proibito di commemorare in piazza il compleanno di Lenin, proclama lo sciopero generale. La risposta degli Arditi, degli ex combattenti e degli studenti aderenti al Fascio di combattimento non si fa attendere. Scendono in piazza armati e affrontano i cortei degli scioperanti al grido di «Morte a Lenin e al bolscevismo!». Per la prima volta scorre il sangue.
Cinque giorni dopo, si hanno le gravi ripercussioni di Milano. Qui, diecimila socialisti marciano verso il centro al canto di “Bandiera rossa”, quando, all’inizio di via Mercanti, sono affrontati da non più di 250 ex ufficiali, Arditi e nazionalisti, chi in camicia azzurra, chi in camicia nera. Ai randelli dei rossi si contrappongono ben presto le rivoltelle degli ex combattenti. La sparatoria diventa generale. A terra rimangono quattro morti e decine di feriti. I socialisti si dileguano, ma i loro nemici, quasi tutti aderenti al Fascio di combattimento di Milano, proseguono la loro giornata di terrore, assaltando e incendiando la sede dell’Avanti! in via San Damiano.
Mussolini ha capito la lezione. Se è il successo politico che cerca, è a destra che lo troverà, dopo aver chiuso in un cassetto il programma troppo di sinistra di piazza San Sepolcro. A destra, dove lo attendono sornioni gli agrari, gli industriali e i nazionalisti, ai quali non manca certo la voglia di spazzar via i socialisti, ma ai quali fanno difetto la decisione, la grinta e il coraggio fisico degli aderenti ai Fasci di combattimento. Il dado è tratto. A Milano, nella sanguinosa giornata del 15 aprile 1919, il fascismo comincia a ripensarsi.
Mussolini appare scatenato. Sfida di continuo a duello i suoi avversari e beffa la polizia che vorrebbe impedire gli scontri, proibiti dalla legge, guidando macchine veloci e sfuggendo a ogni controllo. Pilota aerei e una mattina precipita da 40 metri, l’aereo si sfascia ma lui non si fa nulla, nemmeno un graffio. Scrive articoli di una violenza verbale inimmaginabile e la gente corre a comprare il Popolo d’Italia. Si forma così il mito di un uomo invincibile e di un capo carismatico, cui danno corpo gli inviati dei grandi giornali, alla ricerca di scoop e di cronache politiche sempre più sensazionali (e anche per compiacere i loro editori).

La Chiesa davanti al sorgere del fascismo
Ma qual è la posizione della Chiesa in quella grave crisi culturale e politica? Il 22 gennaio 1922 è morto Benedetto XV, al quale succederà, il 6 febbraio, con il nome di Pio XI, Achille Ratti (1857- 1939), arcivescovo di Milano, la città dove è nato il fascismo. Il governo guidato da Ivanoe Bonomi (1873-1951) ha ordinato che siano esposte le bandiere a mezz’asta e il ministro della Giustizia Giulio Rodinò di Miglione (1875-1946) ha presentato ufficialmente le condoglianze in Vaticano: due decisioni che hanno scatenato dure critiche da parte laicista. Nel pieno della polemica, Mussolini (che dal 18 maggio dell’anno precedente è deputato alla Camera assieme a 32 membri dei Fasci di Combattimento e che, l’11 novembre, ha ufficialmente costituito il PNF, il Partito nazionale fascista) prende posizione: chiede (ma non ottiene) che Benedetto XV sia commemorato alla Camera e scrive un articolo di elogio per il nuovo pontefice, di cui ricorda la cortesia dimostrata verso i gagliardetti fascisti lasciandoli entrare nel Duomo di Milano per la cerimonia del Milite Ignoto. L’atteggiamento del Papa è anch’esso chiaro e significativo: al momento della sua elezione, benedice la folla dalla loggia esterna di San Pietro, cosa che non era mai più accaduta dopo il 1870 e la violenta presa di Roma da parte dei bersaglieri con la “breccia di Porta Pia”. Un segnale di pacificazione che troverà ulteriori manifestazioni con l’appello lanciato da Pio XI ai capi delle grandi potenze riuniti alla conferenza di Genova di aprile-maggio 1922. Un appello con cui il Papa auspica il ristabilimento generale di rapporti pacifici e di collaborazione economica tra gli Stati europei.
Frattanto, mentre, sulle strade e nelle piazze delle città del Nord, grandi e piccole, fascisti e comunisti si massacrano selvaggiamente, i governi crollano uno dopo l’altro. Il 20 febbraio 1922 cade il governo Bonomi, travolto dal crack della Banca di Sconto. In luglio cade il primo governo guidato da Luigi Facta (1861- 1930). L’Alleanza del lavoro, l’organizzazione che unisce partiti e sindacati di sinistra, proclama lo sciopero generale. Ma lo sciopero fallisce perché ovunque (alle poste, alle ferrovie, nelle scuole, negli ospedali, nei trasporti pubblici) lavoratori in camicia nera, protetti da squadre armate di manganelli e pistole, si sostituiscono agli scioperanti.

Lo spostamento del fascismo su posizioni più moderate

A Milano i fascisti occupano Palazzo Marino, sede del Comune, dopo una sparatoria con morti e feriti, quindi procedono alla terza distruzione dell’Avanti! Il 1° agosto si forma il secondo governo Facta. È il giorno della famosa frase del primo ministro: «Nutro fiducia». La risposta di Mussolini è la convocazione, a Roma, della direzione del PNF. Durante i lavori, annuncia che la «marcia sulla capitale» è ormai decisa. E sarà una marcia armata. Si forma il “quadrumvirato”: Michele Bianchi (1883-1930), giornalista del Popolo d’Italia e segretario del PNF, Italo Balbo (1896- 1940), capo degli squadristi di Ferrara e futuro governatore della Libia, il generale Emilio De Bono (1866-1944), già Capo di stato maggiore dell’esercito durante la guerra di Libia e il generale Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon (1884-1959), che sarà governatore della Somalia italiana.
Il 1° ottobre si verifica una ulteriore frattura tra le file della sinistra: Turati, Treves e Giacomo Matteotti (1885-1924) lasciano il Psi e fondano il Psu (Partito socialista unitario), riformista e pronto ad allearsi con cattolici e liberali in funzione antifascista. I più sensibili al richiamo sono don Sturzo e il cremonese Guido Miglioli (1879-1954), cattolici e antifascisti. Ma il Ppi non li segue. La conseguenza è una stretta unità d’azione tra il Psi e il PCd’I.
Il 24 ottobre i fascisti convergono da tutta Italia su Napoli per un’“adunata nazionale”. Mussolini parla in piazza del Plebiscito di fronte a centomila persone: «Tutto il potere a tutto il fascismo! ». La folla risponde: «A Napoli piove! A Roma! A Roma!». Mussolini rientra a Milano. Nella notte del 28 ottobre le colonne armate delle camicie nere si mettono in movimento da tutta Italia dirette a Roma con treni e camion. Il “quadrumvirato” dirige le operazioni dal quartier generale, installatosi all’hotel Brufani di Perugia.
Alle 5 del mattino il Consiglio dei ministri delibera lo stato d’assedio e il passaggio dei poteri all’esercito, ma il Re rifiuta di firmare il decreto. Il governo si dimette. Il Re incarica l’on. Antonio Salandra (1853-1931), che offre un posto di ministro a Mussolini. Secco rifiuto. La mattina del 29 ottobre, il generale Arturo Cittadini (1864-1928), per ordine del Re, invia al futuro Duce il famoso telegramma contenente l’incarico di formare il governo. Alle 20,30 Mussolini sale sul treno della notte per Roma e al capotreno dice: «D’ora in avanti i treni marceranno in orario». Il 30 è dal Re: ha già in tasca da tempo la lista dei ministri.
Per sé, oltre alla presidenza del Consiglio, ha tenuto gli Esteri e gli Interni. Il 16 novembre, ingoiato il celebre insulto («Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli »), la Camera gli voterà la fiducia: 316 sì e pieni poteri in materia amministrativa ed economica.

IL TIMONE n. 111 – Anno XIV – Marzo 2012 – pag. 22 – 24
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