Se si sacrifica la verità al consenso il risultato è il relativismo. Se già in campo filosofico, dove si studiano cose puramente umane, la concordia pare impossibile, essa lo è oltremodo riguardo a cose divine. Lo dimostra la storia del protestantesimo.
Sebbene, all’interno della galassia sempre più variegata di coloro che si definiscono cristiani vi sia chi nega la divinità di Cristo (v. ad es. i Testimoni di Geova), tutti concordano nel ritenere l’Antico e il Nuovo Testamento come parola rivelata da Dio. Partendo da questo minimo comune denominatore, ritengo si possa dimostrare che l’infallibilità magisteriale della Chiesa, lungi dall’essere una verità puramente dogmatica, è in primo luogo una verità razionale, una verità cioè dimostrabile con certezza indipendentemente da ragioni di natura teologica o esegetica.
A tale fine, mi pare istruttivo riferirmi al caso di un famoso filosofo del Seicento, John Locke (1632-1704) che rappresenta un caso emblematico, poiché visse in uno dei periodi più travagliati e confusi della storia inglese, a causa delle violente lotte politico-religiose che, a circa cento anni dalla scomunica di Lutero (1521) e dall’istituzione della Chiesa di Stato anglicana (1534) da parte di Enrico VIII, infuriavano tra anglicani, cattolici, puritani (calvinisti) e presbiteriani.
Locke, terminato l’iter studentesco, riceveva i primi incarichi accademici presso il Christ Church College di Oxford proprio nell’anno della restaurazione monarchica stuartiana (1660), che seguiva all’aspra dittatura puritana di Oliver Cromwell. Nei decenni successivi si trovò coinvolto personalmente nelle lotte politiche e religiose del suo paese, tanto che tra il 1683 e il 1689 dovette fuggire come esule in Olanda. Già negli anni oxionensi l’eco delle furibonde lotte politico-religiose aveva portato Locke ad individuare nella ricerca della pace e della concordia civile il fine ultimo di ogni azione politica. Questo fine rappresentò sempre il punto fermo e la fonte di ogni teorizzazione lockiana anche in campo religioso. E fu proprio nel periodo dell’esilio olandese, che le frequentazioni e le amicizie strette da Locke all’interno del movimento degli arminiani (un gruppo di calvinisti riformati) favorirono la definitiva maturazione del suo pensiero religioso.
Assumendo il principio fondante del protestantesimo, quello della sola scriptura (secondo cui l’unica autorità da cui trarre le verità di fede e la corretta interpretazione dei testi rivelati è costituita dagli stessi testi sacri), Locke elabora una dottrina secondo cui la professione di fede nel Cristo come figlio di Dio, che a suo parere sarebbe l’unico articolo di fede obbligatorio, viene computata da Dio come giustizia all’uomo, ad integrazione della mancata perfezione, da parte dell’uomo stesso, nell’adempimento della legge morale e dei precetti evangelici. Cristo, che è vero figlio di Dio, ma che, secondo Locke, non è egli stesso Dio, è portatore di una salvezza consistente non tanto, come per il Cattolicesimo, in una trasformazione reale del peccatore tramite la grazia (santificazione), bensì in una sorta di «copertura assicurativa» in favore di un uomo che, per quanto intenzionalmente volto al bene, rimane intrinsecamente e irrimediabilmente peccatore. Avendo tutti peccato, tutti, secondo Locke, sono punibili con la perdita dell’immortalità, che al peccato consegue. Tuttavia proprio la fede in Cristo consente al cristiano di superare l’intrinseca imperfezione del proprio operato: «Con la legge della fede, invece, alla fede è concesso di supplire al difetto di una piena obbedienza; e così i credenti sono ammessi alla vita ed alla immortalità, come se fossero giusti» (John Locke, La ragionevolezza del cristianesimo, cap. III).
Nelle intenzioni del nostro filosofo, questa riduzione estrema del Credo ad un unico articolo avrebbe consentito di scongiurare tutte quelle dispute di tipo teologico, da cui spesso si generavano i conflitti tra le varie fazioni religiose. In questo senso la dottrina religiosa di Locke, più che basarsi sul criterio della verità, sembra concepita per favorire un consenso inversamente proporzionale alla complessità e al numero delle verità enunciate. Un atteggiamento divenuto molto comune oggigiorno, basti pensare alla recente notizia, proveniente dal mondo protestante germanico, di una nuova versione «politicamente corretta» della Bibbia, che sarà epurata delle espressioni ritenute misogine e antisemite, nonché di quelle non politicamente corrette a riguardo delle relazioni tra poveri e ricchi (ad esempio, secondo gli estensori di questa nuova versione, designare Dio con il termine «Signore» non è accettabile, a causa del «maschilismo» insito nell’utilizzo del lemma in questione). Eppure una pace, una concordia o un consenso che derivino da una relativizzazione della verità, non potranno essere autentiche e condurranno inevitabilmente, da un lato, ad un progressivo indebolimento delle coscienze e, dall’altro, di conseguenza, ad un continuo scindersi delle persone in ulteriori sottocategorie d’opinione (sia sul piano religioso che su quello civile). E ciò deve essere evitato, non solo perché ci sono verità per cui vale la pena morire, se necessario, ma, soprattutto, perché chi rinuncia a difendere la verità non otterrà che una pace puramente convenzionale o contrattualistica: una media delle opinioni discordi, senza relazione con la verità. Se non vi sono verità riconosciute e dichiarate come previe-estranee alla legge del consenso, il relativismo etico finirà per demolire qualsiasi valore religioso e morale. Sul piano religioso l’unico argine contro questa involuzione può essere rappresentato dall’esistenza di un’autorità garantita, in materia di fede, dall’errore. Non mi pare ragionevole infatti sostenere che, di fronte alla parola di Dio, chiunque abbia, come nei confronti di un testo letterario o filosofico, l’occasione per un’interpretazione personale. Le Sacre Scritture ci rivelano infatti le verità e i misteri più profondi che riguardano non solo il significato autentico dell’esistenza umana, ma anche la natura stessa di Dio e del suo piano salvifico. Se già in campo filosofico, dove si studiano cose puramente umane, la concordia pare impossibile, si può immaginare quanto ciò sia inverosimile rispetto ad una rivelazione di origine divina e la storia del protestantesimo ce lo dimostra inequivocabilmente. La libera interpretazione e la semplificazione forzata del messaggio biblico suonano dunque come l’utopia più irrazionale e anti-sto-rica che potesse concepirsi.
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«In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tut-to quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo»
(Mt 18,18).
Bibliografia
Concilio Vaticano I, Prima costituzione dogmatica Pastor aeternus, 18 luglio 1870, in H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum, 3050-3075.
John Locke, Scritti filosofici e religiosi, a cura di Mario Sina, Rusconi 1979.
Margherita Guarducci, Il primato della Chiesa di Roma, Rusconi, 1991.
German Bible goes politically correct,
www.dw-world.de/dw/article/0,2144,2023998,00.html.
IL TIMONE – N.63 – ANNO IX – Maggio 2007 pag. 32-33