Un lettore ha provato a tradurre in inglese l’articolo che scrissi per il Timone su Ipazia (la filosofa linciata da un gruppo di cristiani nel 415 ad Alessandria) per inserirlo su Wikipedia. Gli è stato respinto perché, testuale, «l’autore è un apologeta, non uno storico». Dunque, la parola «apologetica» continua a essere sinonimo di magnificazione faziosa e partigiana, per cui l’apologeta non può essere obiettivo, neanche se dice la verità. Per alcuni l’obiettività è porsi nel mezzo tra verità ed errore, facendo la figura di imparziali super partes. Questo pensiero non è mio ma di Juan Donoso Cortés, che per questo additava nei cosiddetti moderati i peggiori nemici di Cristo.
Oggi, cinema e televisione fanno più danno della grandine (come dicono i contadini toscani) e ne ho avuto conferma l’altro giorno, nel corso di un piccolo diverbio in un negozio con un giovine le cui trecce arrivavano alla vita (diceva Pio XII: «Da come uno si veste si capisce che cosa sogna»). È grazie a questi media che l’anticristianesimo è sceso al livello della plebe, la quale non legge la saggistica annotata e nemmeno la pagina culturale dei giornali. È così che i vizi dei Vip (cocaina, promiscuità sessuale, conformismo “trasgressivo”, irreligiosità) diventano di massa. I grandi registi di Hollywood, poi, non escono certo da Harvard, perciò il pensiero politicamente corretto (l’unico che abbiano) può contare su centinaia di milioni di dollari per propagarsi. Ecco quindi Le crociate di Ridley Scott, in cui i cattivi sono i cristiani. Idem con Agorà di Alejandro Amenábar. Ci si erano messi a suo tempo anche i tedeschi con Luther, “santino” che ribadiva la vecchia vulgata della giusta rivolta contro la vendita delle indulgenze. Prima o poi arriverà in Italia la saga de I Borgia, very british, e vi lascio immaginare i contenuti.
Piatto ricco mi ci ficco: è alle porte il germanico Die Päpstin, tratto dal libro La Papessa (1996) di Donna Woolfolk Cross (edito da noi da Piemme). Riprende la leggenda di Johanna di Ingelheim, nata verso l’814 e costretta a travestirsi da monaco per poter studiare (il padre non vuole che le donne imparino a leggere). La donna riesce a diventare papa, dall’853 all’855, come Giovanni VIII. La leggenda cominciò nel XIII secolo e fu sempre considerata tale. Ma credete che la plebe ne verrà informata? No, gli intellettuali d’Occidente continuano implacabilmente a segare il ramo su cui stanno seduti. Poiché su quel ramo siamo seduti, ahimè, anche noi, almeno qui sarà il caso di vaccinare qualche cristiano sulla faccenda. Al film tedesco risponde il connazionale Michael Hesemann nel suo libro Contro la Chiesa. Miti, leggende nere e bugie (San Paolo). La leggenda venne messa in circolo nel XIII secolo da un frate (e ti pareva…), Jean de Mailly, domenicano, subito ripresa da un confratello, Stefano di Borbone: Giovanna, travestita da uomo, fu notaio, cardinale e papa; fu scoperta quando partorì in piena processione; il popolo la legò alla coda del suo cavallo e la trascinò per Roma prima di lapidarla. Ma c’è un’altra versione di Martino Boemo (pure lui domenicano: che volete farci, l’Indice sarà creato solo nel XVI secolo). Per lui Giovanna era inglese: il suo amante l’aveva portata ad Atene, dove aveva studiato sotto mentite spoglie; divenne papa a Roma e morì di parto. Una terza versione dice che fu relegata in un convento e suo figlio diventò vescovo di Ostia.
Il fatto è che nel Duecento le notizie viaggiavano a piedi o a cavallo e i libri, costosissimi, andavano copiati. Così, non c’era modo di verificare la verità di certe dicerie (né, forse, l’interesse). La cosa andò avanti tranquillamente fino all’esplodere delle grandi eresie, quando venne usata come strumento polemico contro la «corruzione » della Chiesa. Infatti, il primo fu Jan Hus nel 1413. Poi, ovviamente, Lutero. Il primo a smontare criticamente la leggenda fu lo storico e annalista Enea Silvio Piccolomini, poi diventato papa Pio II, subito seguito da Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, tra i fondatori della moderna storiografia. Insomma, una leggenda nata, paradossalmente, nella Chiesa (a opera di monaci, come abbiamo visto) e che nessuno per secoli si prese la briga di verificare.
D’altra parte, è normale che non si perda tempo a fare le pulci a una storia quando questa non crea problemi e si può continuare a convivere tranquillamente con falsità credute vere, buone da raccontare la sera attorno al camino. Nel Duecento chi poteva pensare che i posteri avrebbero passato al setaccio la storia cristiana per cercarvi il marcio? Peraltro, non tutte le epoche successive sentirono questa necessità. Solo oggi le ideologie femminista e «gender» hanno tutto l’interesse a gettare fango sul loro nemico giurato, la Chiesa cattolica. Ovvio che la Papessa (leggenda in passato tanto neutra da finire su uno dei Tarocchi) sia tema goloso per chi rimprovera ai papisti il maschilismo e la misoginia. Nel XIII secolo l’unica a trovarvi qualche interesse fu Guglielmina la Boema, un’eretica seppellita nell’abbazia milanese di Chiaravalle e nella cui tomba, chissà perché, volle essere sepolto il famoso banchiere Mattioli, fondatore della Comit. Morta nel 1281, i suoi seguaci elessero al suo posto la contessa Maifreda Visconti (la Papessa dei tarocchi viscontei). Guglielmina diceva che «nei tempi ultimi» le donne avrebbero occupato il Trono di Pietro. Cesare Baronio era cardinale, amico di Galileo, discepolo di s. Filippo Neri, storico della Chiesa ed è Beato. Secondo lui, la leggenda della Papessa Giovanna era sorta per satireggiare il vero papa Giovanni VIII, che regnò dall’872 all’882. Forse costui aveva modi effeminati, tant’è che lo scismatico Fozio (patriarca di Costantinopoli scomunicato), suo nemico, lo chiamava sarcasticamente «il virile Giovanni». Vera e propria «papessa», sulla bocca del popolino, potrebbe essere stata la celebre matrona Marozia, potentissima in Roma e, nel X secolo, madre di due papi, Giovanni X e Giovanni XI, nonché nonna di un terzo, Giovanni XII. In quel secolo, va detto, il papato toccò il punto più basso della sua intera storia: solo nel 963 l’imperatore Ottone I il Grande riuscì a far eleggere Leone VIII, sottraendo il pontificato alla “cupola” mafiosa della nobiltà romana. Informa Hesemann che, in effetti, c’era a Roma una strada che portava dal Laterano all’attuale San Pietro e che si chiamava Vicus Papissae. Era proprio il luogo in cui, secondo la leggenda, la Papessa Giovanna avrebbe partorito in pubblico. Tuttavia, la strada prendeva il nome dalla ricca famiglia dei Pape, che ci abitava. L’ultimo Pape fu un tal Giovanni che morì nel 973 lasciando una vedova: la gente chiamava costei popolarmente «la Papessa». Oggi la strada in questione ha nome Via dei SS. Quattro Coronati. Della leggenda fa parte anche il trono col buco sul sedile, da cui un cardinale apposito verificava la virilità del nuovo papa, onde evitare un altro «caso Giovanna». È vero, nei Musei Vaticani c’è una sedia del genere, ma non è altro che una «comoda» e al di sotto del buco ci si metteva un orinale (i ricchi usavano questa sedia, i poveri si accoccolavano “alla turca”).
Insomma, spiacenti per i femministi e i cultori di programmi televisivi tipo Voyager o Mistero: la Papessa Giovanna non è mai esistita. Né, con buona pace di Gugliemina la Boema, mai esisterà.
Post scriptum: qualche lettore ha notato la bacchettata che Umberto Eco mi ha inflitto su L’Espresso per un errore da me commesso in un post del mio blog «Antidoti». Devo qualche chiarimento. Eco, come tutta l’Internet laicista, ha notato il post con l’errore (citavo Eusebio, storico morto molti anni prima dei fatti di Ipazia) ma non, ovviamente, quello immediatamente successivo in cui me ne scusavo e rettificavo. La memoria fa scherzi anche a Eco, però, giacché, pur conoscendomi da tanto (vedi su Facebook), continua a sbagliare il mio cognome e ad attribuirmi quello di Andrea, l’inventore del commissario Montalbano. Naturalmente, gli errori storici del film Agorà su Ipazia sono tranquillamente ignorati sia da Eco che da tutto il laicume internettiano. Morale: per essere autorizzati a dire fesserie basta fare film e romanzi «storici». Immaginate cosa sarebbe successo se un cattolico avesse fatto una fiction in cui Bernardo Gui era l’eroe e Guglielmo di Baskerville il villain.
IL TIMONE N. 96 – ANNO XII – Settembre/Ottobre 2010 – pag. 20 – 21