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12.12.2024

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La questione meridionale
31 Gennaio 2014

La questione meridionale

Origini e conseguenze di una delle tre principali questioni risorgimentali. Il Meridione come una versione della civiltà cristiana d’Occidente, stravolta da un processo di unificazione sbagliato

Il Regno di Napoli
Il Mezzogiorno d’Italia, pur costituendo un ambito territoriale i cui limiti non sono individuabili nettamente rispetto alla parte restante della Penisola, si è sempre imposto all’attenzione degli studiosi come un luogo unitario – il dantesco «corno d’Ausonia che s’imborga / di Bari, di Gaeta e di Catona / da ove Tronto e Verde in mare sgorga» – caratterizzato da una forte “personalità”, sia storica che geografica, e ha costituito per un periodo lunghissimo una realtà ben definita in rapporto ad altre entità italiane, mediterranee ed europee. Inoltre, dopo la nascita, nel secolo XII, di uno Stato unitario e autonomo – con singolari sviluppi economici e sociali, e con proprie caratteristiche socio-culturali –, si configura anche come uno spazio politico ben definito, le cui vicende vanno giudicate non alla stregua di una storia regionale ma con il metro di una vera e propria storia nazionale.
Per più di settecento anni, da Ruggiero II d’Altavilla (1095-1154), re di Sicilia dal 1130, a Francesco II di Borbone (1836-1894) – re delle Due Sicilie fino al 1861 –, le terre del Mezzogiorno si sono ritrovate unite nella stessa realtà statuale. Del tutto indipendente dal 1734 e retto dalla dinastia borbonica, il reame rappresenta un “antico Stato”, ovvero una delle numerose e plurisecolari formazioni territoriali italiane, che in sette secoli di vita autonoma ha offerto, fra l’altro, un apporto rilevante alla cultura cattolica italiana ed europea e che, secondo lo storico Angelantonio Spagnoletti, non era certamente «una realtà in attesa della rivoluzione francese o del Risorgimento».

Le origini della Questione
Dopo l’annessione del regno al nuovo Stato unitario, nel 1861, gli intellettuali e i politici della Destra Storica, caratterizzati da un distacco culturale e politico prima ancora che biografico con la popolazione da cui provengono e che disprezzano, sono consapevoli della loro condizione minoritaria ma, convinti di essere chiamati alla missione storica di dirigere un popolo verso la civiltà, combattono senza esclusione di colpi tutto ciò che giudicano arretrato rispetto ai loro parametri culturali e politici.
Carico di pregiudizi nei confronti del Regno delle Due Sicilie anche il primo ministro del Regno di Sardegna, Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), esprime fin dai giorni cruciali dell’invasione garibaldina l’irritazione per la «condotta […] ignominiosa » del popolo napoletano, che non si ribella ai propri governanti, e nei mesi seguenti manifesta il suo fastidio e la sua incomprensione in una serie di lettere ai suoi collaboratori. Il romagnolo Carlo Luigi Farini (1812-1866), luogotenente generale del re a Napoli, in una lettera a Cavour del 27 ottobre 1860, fornisce l’espressione più concisa del contrasto esistente, agli occhi dei nuovi arrivati, fra il Sud “barbarico” e il resto d’Italia: «Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Africa: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile. E quali e quanti misfatti!». Il 17 febbraio 1861 sono estesi al Mezzogiorno il codice penale e l’ordinamento giudiziario del Regno sardo, si dichiara cessata l’efficacia del concordato del 1818 fra le Due Sicilie e la Santa Sede, viene introdotta la legge sarda del 1855 che sopprime gli ordini religiosi, tranne alcune eccezioni. Alle proteste del foro napoletano, che vede cancellate d’un colpo le sue tradizioni gloriose, si aggiungono i tumulti del popolino che, soprattutto nei piccoli centri, perde le fonti principali di beneficenza, di assistenza e d’istruzione. Il cardinale Sisto Riario Sforza (1810-1877), arcivescovo di Napoli, da poco rientrato dall’esilio inflittogli dai garibaldini, protesta con molta energia e viene nuovamente allontanato. In queste condizioni non desta stupore il fatto che la resistenza antiunitaria delle popolazioni meridionali ricordi nella sua complessità e nella sua articolazione le insorgenze controrivoluzionarie del 1799 e del 1806. Negli anni successivi al 1860 essa interessa i fronti più disparati, dall’arena parlamentare al settore amministrativo, dall’ambito elettorale al rifiuto della coscrizione obbligatoria, dalla propaganda dei migliori pubblicisti del regno fino alla resistenza armata, che è il fenomeno più evidente, coinvolgendo tutta la società. Da allora l’ex regno, divenuto “Mezzogiorno”, è oggetto di studio e di analisi da parte di scienziati sociali, antropologi e politici ascritti alla categoria dei “meridionalisti”, che lo hanno giudicato in ritardo rispetto alle aree più “avanzate” e sottosviluppato sulla base di presunte aspettative. La storia della Questione Meridionale è, dunque, la storia dello sforzo compiuto dallo Stato italiano per inglobare una realtà del tutto disomogenea nei confronti del nuovo organismo politico e per superare quella che il politologo Ernesto Galli della Loggia ha definito «una diversità etico-antropologica così radicale da farne il punto critico per antonomasia della problematica identità nazionale italiana».

Le interpretazioni
La Questione Meridionale nasce ufficialmente dopo le elezioni del 1874, che aprono la strada all’ascesa al potere della Sinistra, con la denuncia di alcuni esponenti della Destra Storica, principalmente lo storico Pasquale Villari (1826-1917), il pubblicista Leopoldo Franchetti (1847-1917) e il barone Sidney Costantino Sonnino (1847-1922). Il loro giudizio sul “ritardo” del Sud nasce dal confronto con il modello economico liberale, nato dalla rivoluzione industriale del secolo XVIII, e con la cultura idealistica, secondo la quale la storia del Mezzogiorno è solo un lungo prologo all’unificazione politica della Penisola e al Risorgimento, interpretato come la marcia ineluttabile verso una superiore civiltà politica, compiuta dagli esponenti liberali del regno contro l’incomprensione e l’ostilità della “plebe”. Il Meridione d’Italia viene valutato, dunque, rispetto a quei modelli e ad alcune dicotomie – sviluppo e sottosviluppo, progresso e arretratezza – utilizzate per indicare gli obiettivi raggiunti rispetto a un percorso ideale da compiere. Sotto il profilo economico, il problema viene affrontato con una serie di interventi speciali a favore di alcune regioni – per la Basilicata e per Napoli nel 1904, per la Sardegna nel 1907 –, che trasferiscono al Sud ingenti fondi pubblici, la cui distribuzione è gestita dal nuovo ceto politico meridionale, che trova una ragion d’essere proprio nell’attività di mediazione fra le esigenze della collettività e l’erogazione di risorse pubbliche. Queste sono destinate soprattutto a fini non produttivi e in parte alimentano il circuito perverso politica- affari-criminalità. L’assalto alla spesa pubblica per il Sud – cui partecipano anche grandi complessi industriali non meridionali – e il fallimento dell’intervento straordinario sono però addossati dai pensatori di stampo illuministico all’ethos napoletano, che essi non hanno mai compreso e che hanno considerato per di più come un grande ostacolo allo sviluppo. L’arretratezza compare come categoria perenne della storia del Mezzogiorno anche in relazione alla sua struttura sociale e culturale, legata a ipotetici condizionamenti di lunga data. Se lo scrittore Carlo Levi (1902-1975) e l’antropologo Alfonso Maria Di Nola (1926-1997) elaborano le opinabili categorie interpretative del “paganesimo perenne” e della «cultura subalterna», riferite al mondo contadino, i sociologi statunitensi Ernest C. Banfield (1916-1999) e Robert Putnam, teorizzano il “familismo amorale”, cioè un comportamento rivolto unicamente a perseguire il bene della propria cerchia familiare, e la prevalenza al Nord di un associazionismo “orizzontale” e democratico e al Sud di reti gerarchiche “verticali”, costituite intorno alla Chiesa e alla mafia. Tuttavia, gli studi degli storici Gabriele De Rosa (1917-2009) e Giuseppe Galasso hanno consentito di sfatare il luogo comune di una cristianizzazione superficiale delle regioni meridionali e di formulare giudizi più equilibrati sulla religiosità napoletana, espressa in modo genuino da sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) e contraddistinta dall’ortodossia, dalla fedeltà alla Santa Sede, da una grande delicatezza e da un’accentuata tendenza alla solidarietà.
Parimenti, studi recenti non viziati da stereotipi mostrano che in realtà alla data dell’Unità non vi erano differenze fra le due aree del Paese e che a partire dagli anni successivi all’unificazione il declino del Mezzogiorno è stato un processo ininterrotto. Inoltre, alcuni studiosi hanno messo in rilievo il fatto che le differenti strutture socio-economiche del Mezzogiorno, e in particolare l’agricoltura estensiva del latifondo, sono state frutto di una risposta razionale a peculiari esigenze locali.

Conclusioni
Nel secondo dopoguerra il Mezzogiorno si è trasformato rapidamente da società prevalentemente rurale a realtà fortemente “modernizzata”, con una vera e propria rivoluzione nella mentalità e nella cultura. Per quanto si sia rivelato, nel suo complesso, a lungo resistente alla modernità, intesa come insieme di valori alternativi al cristianesimo e alla sua incidenza politica e sociale, la sua identità si sta dissolvendo a seguito sia della grande frana emigratoria degli anni 1950, che ha causato la disarticolazione definitiva dell’antica organizzazione sociale e territoriale, sia dell’assimilazione dei comportamenti proposti dal modello consumistico, ritenuto superiore a quello tradizionale.
È giunto, dunque, il momento di procedere a un inventario di quanto sopravvive dell’antica civiltà napoletana e di studiarne le origini, i modelli di socialità e la cultura, nella consapevolezza che la soluzione della Questione passa attraverso la rinascita religiosa e civile del Mezzogiorno e il ricupero delle sue radici storiche e nazionali.

Dossier: UNITÀ e RISORGIMENTO: 150 anni, tre ferite

IL TIMONE N. 99 – ANNO XIII – Gennaio 2011 – pag. 39 – 41

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