Un’opera di un grande Pontefice che delinea i requisiti del pastore d’anime. Che deve insegnare, ammonire, amare la verità e vivere di conseguenza. Con un fine supremo: salvare anime
Come è stato notato da più parti, a subire i maggiori contraccolpi della crisi complessiva che ha riguardato, e ancora riguarda, la pratica della fede cattolica e la vita della Chiesa è stato il clero. Sappiamo bene quanti e quali attacchi abbia subito la figura del prete, e le cifre concernenti il calo del numero dei sacerdoti e dei seminaristi sono lì a ricordarci che la crisi non è stata certo di poco conto.
Ma sarebbe gravemente errato lasciarsi prendere dallo sconforto e ritenere irreversibile tale stato di cose. Oggi più che mai appare necessario impegnarsi con tutte le forze perché alla Chiesa vengano donati preti santi e numerosi, capaci di testimoniare appieno la bellezza del Vangelo e di portare la parola di salvezza in mezzo alla gente, sempre più bisognosa di qualcuno che la sappia amare e guidare verso il vero bene, che è rappresentato da Dio e dal suo Regno.
In un contesto simile, può essere particolarmente utile tornare ad ammirare i luminosi modelli di pastori che lungo i secoli hanno abbellito il volto della Chiesa attraverso le loro testimonianze di altissimo valore spirituale.
Il bisogno di pastori santi
È, tra i tanti, il caso di san Gregorio Magno, uno dei più grandi pontefici di tutti i tempi, che sedette sulla cattedra di Pietro dal 590 al 604, facendo risplendere di una luce davvero intensa il papato e aumentandone fortemente il prestigio, lui che volle essere chiamato «Servo dei servi di Dio» e che venne ben presto ricordato come il «console di Dio».
Oltre al suo fulgido esempio personale, Gregorio ci ha lasciato una preziosa eredità di scritti, tra i quali spicca La regola pastorale, un’opera da lui composta all’inizio del pontificato e dedicata a delineare la figura ideale del pastore d’anime. Lo scritto ebbe una diffusione e un successo straordinari che non sono mai venuti meno nel tempo. Nel 1960, parlando alla III sessione del Sinodo Romano, il Beato Giovanni XXIII così si esprimeva a proposito del testo gregoriano: «Questo piccolo libro ci tiene compagnia da quasi mezzo secolo e ci procura gioie ineffabili a rileggerlo in tutte le circostanze della vita».
La causa occasionale che spinse Gregorio a scrivere La regola pastorale fu costituita dal benevolo rimprovero del vescovo di Ravenna Giovanni, che lo aveva criticato per aver tentato di sottrarsi in un primo momento al compito di reggere la Chiesa universale. Nel rispondere a tale appunto, il santo Pontefice afferma con solennità che il peso che ogni pastore dovrà sopportare è molto gravoso: per questo è bene che nessuno brami la responsabilità pastorale per sete di potere; anzi, è necessario che coloro che ne vengono investiti siano consapevoli della delicatezza e della difficoltà di ciò che li attende.
Ecco perché – afferma con forza Gregorio – si ha urgente bisogno di pastori santi, coerenti e pienamente consci della decisiva importanza del loro ruolo.
Le caratteristiche del buon sacerdote
Nelle quattro parti in cui è suddivisa, l’opera affronta alcuni temi fondamentali: quali debbano essere i requisiti del pastore d’anime; quale la sua vita; come egli sia tenuto a insegnare e ad ammonire i sudditi; e, infine, perché egli non debba mai insuperbire, ma rimanere sempre umile. Il primo errore da evitare, secondo san Gregorio, è quello di ammettere al sacerdozio persone che non conoscono le norme basilari di una buona vita spirituale, prima fra tutte l’umiltà. Chi governa le anime non può essere un ignorante, perché il compito a cui si accinge è della massima importanza. Non si tratta, tuttavia, di una competenza teorica: il santo Pontefice afferma che la guida delle anime deve essere «esemplare nel suo agire per potere annunciare ai sudditi, col suo modo di vivere, la via della vita». È necessario che la predicazione rispecchi fedelmente il modo di vivere: è l’esistenza del pastore che «grida le verità celesti»; altrimenti le parole lasciano il tempo che trovano. Tale coerenza è un tesoro essenzialmente interiore, come, d’altra parte, la doppiezza abita nel cuore e non sempre è esteriormente visibile. Si legge ne La regola pastorale: «Tutti coloro che presiedono non godano di governare sulle anime ma di giovare loro»; e ancora: «Sarebbe spesso cosa degna che nella nostra tacita considerazione anteponessimo a noi stessi le persone che correggiamo ».
Il fine supremo: salvare anime
Tra i pericoli più gravi che Gregorio vede sulla strada di chi è chiamato a guidare il gregge, v’è quello rappresentato dalla ricerca del consenso a tutti i costi: il pastore esemplare ama la verità e su di essa misura il proprio comportamento: a lui interessa la salvezza delle anime e tale fine supremo dirige i suoi sforzi. Vive l’obbedienza e la richiede, come Gesù, il Figlio che fu pienamente obbediente al Padre. Descrivendo lo stile con cui il pastore deve insegnare ai suoi sudditi, il santo Pontefice sottolinea l’importanza della capacità di distinguere ogni singola persona o situazione dalle altre: la carità è l’unica legge, ma essa deve trovare applicazioni diverse a seconda dei diversi casi che si presentano all’attenzione del pastore, il quale – Gregorio lo sottolinea con forza – è responsabile in prima persona della salvezza o della perdizione di coloro che gli sono stati affidati.
Il fondamento della vita del buon pastore d’anime, la fonte principale della sua piena maturazione e l’alimento spirituale che lo nutre è la Sacra Scrittura: essa è, innanzitutto, maestra di coerenza. A tale riguardo, Gregorio non si stanca di ripetere che «ogni predicatore si faccia sentire più con i fatti che con le parole, e imprima le sue orme per chi lo segue, attraverso una buona vita, piuttosto che mostrare con le parole la meta verso cui essi devono camminare ». Ecco perché è necessario che i pastori «prima abbiano cura di punire i propri peccati con pianto e poi denuncino ciò che è degno di punizione negli altri; e prima di fare risuonare parole di esortazione, gridino con le opere tutto ciò che hanno intenzione di dire».
Non casualmente, le ultime parole de La regola pastorale contengono un sincero atto di umiltà – «ho dipinto un uomo bello, io cattivo pittore» – e un’umile, accorata richiesta al vescovo Giovanni di Ravenna: «in questo naufragio della vita, ti supplico, sostienimi con la tavola della tua preghiera».
Ricorda
«Essere sacerdote significa diventare amico di Gesù Cristo, e questo sempre di più con tutta la nostra esistenza. Il mondo ha bisogno di Dio – non di un qualsiasi dio, ma del Dio di Gesù Cristo, del Dio che si è fatto carne e sangue, che ci ha amati fino a morire per noi, che è risorto e ha creato in se stesso uno spazio per l’uomo. Questo Dio deve vivere in noi e noi in Lui. È questa la nostra chiamata sacerdotale: solo così il nostro agire da sacerdoti può portare frutti».
(Benedetto XVI, Omelia per la Santa Messa del crisma, 13 aprile 2006, www.vatican.va)
Per saperne di più…
Gregorio Magno, La regola pastorale, Città Nuova, 1981
IL TIMONE N. 117 – ANNO XIV – Novembre 2012 – pag. 32 – 33
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