La rivoluzione khomeynista del 1979 incita il mondo islamico alla “rivincita” contro l’Occidente. Comincia una escalation che culmina nel terrorismo.
E che continua a rappresentare una seria minaccia per la vita ordinaria di milioni di persone che vivono in Occidente.
Nel volume Etica, religione e Stato liberale, trascrizione del dialogo che nel 2004 vide protagonisti a Monaco il cardinale Joseph Ratzinger e il filosofo laico Jürgen Habermas, gran parte del confronto ruota su un aneddoto raccontato da Habermas.
Invitato a Teheran, il filosofo tedesco si sente dire che la vera stranezza da spiegare ai popoli del mondo non è la teocrazia iraniana, ma la democrazia europea, che rifiuta esplicitamente di fondarsi su quei valori religiosi che invece la maggioranza dell’umanità mette ancora a fondamento del vivere civile. Secondo Habermas l’iraniano ha torto. Perché i valori della democrazia non si riferiscono al contenuto delle scelte ma alla procedura (“una persona, un voto”) per scegliere, e sono quindi universali.
Il cardinale Ratzinger si chiede invece «se la secolarizzazione europea non sia», in effetti, «l’anomalia che richieda una correzione», dal momento che le ideologie che hanno chiuso la porta della vita sociale alla religione hanno disseminato l’Europa di lutti e rovine.
Ma aggiunge pure che talora «vi sono nella religione patologie estremamente pericolose». La religione, secondo il futuro Papa, deve «considerare la ragione come organo di controllo», «farsi purificare e ordinare continuamente» dal confronto con la razionalità e anche dal dialogo con la filosofia. Questo è l’elemento che sembra mancare nell’islam.
Secondo lo storico Bernard Lewis tutta la storia moderna dell’islam, a partire dal fallito secondo assedio di Vienna del 1683, ruota intorno al tentativo di capire «che cosa è andato storto»: perché l’islam che, fino ad allora e nonostante occasionali ripiegamenti aveva sempre visto crescere il numero di paesi da lui controllati, a partire dalla fine del Seicento arretra fino ad arrivare, dopo la Prima guerra mondiale, a vedere oltre il novanta per cento dei musulmani governato da non musulmani. A questa domanda la prima risposta che è data in ambito sia sunnita – in particolare dai sultani del “dispotismo illuminato” in Turchia – sia sciita è di tipo modernizzatore se non modernista. L’islam arretra perché è rimasto indietro rispetto all’Occidente, da cui deve dunque riprendere soprattutto un centralismo in cui il potere politico introduca elementi di separazione dalla religione. Con varianti che vanno da un laicismo esplicitamente irreligioso – come è quello di Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938) in Turchia – a un islam modernista e nazionalista nelle varianti dei vari Gamal Abdel Nasser (1918-1970) in Egitto, Sukarno (1901-1970) in Indonesia, e così via, questa posizione domina il mondo islamico fino agli anni 1950. La stessa ideologia, nella variante più laicista alla Kemal Atatürk, ispira il pensiero degli imperatori della dinastia Pahlavi in Persia, a partire dal colpo di Stato del 1921 di Reza Khan Palawi (1877-1944), che nel 1935 cambia il nome del paese in “Iran”, la terra degli Ariani, sulla base di suggestioni e consigli che gli vengono dalla Germania nazista, e per tutto il regno del figlio Mohammad Reza Palawi (1919-1980).
Il modernismo appare persuasivo fino a quando non governa. Quando vanno al governo, i nazionalisti modernisti deludono, producendo corruzione e gestione dissennata dell’economia che crea vaste aree di povertà anche in paesi di grandi ricchezze naturali.
Riemerge così la seconda risposta alla domanda sulle sconfitte islamiche: quella che ne attribuisce le cause nell’essere i musulmani non troppo diversi dagli europei, ma al contrario troppo simili. È perché hanno abbandonato la purezza di fede e di costumi delle prime generazioni che gli islamici hanno cominciato a perdere. Questa risposta – nata come “tradizionalista” nel Settecento – aggiungendo alla denuncia morale elementi politici diventa all’inizio del XX secolo “fondamentalista” e non cessa di crescere.
Così, dove forse meno la si attendeva, nell’Iran sciita (perché gli sciiti hanno una tradizione di “quietismo” politico poco propenso alle rivoluzioni), nel 1979 per la prima volta un movimento fondamentalista va al potere con la rivoluzione guidata da Ruhollah Musavi Khomeyni (1901-1989), la cui ideologia è una miscela di tradizionale messianismo apocalittico sciita, fondamentalismo islamico di origine sunnita e teorie terzomondiste e rivoluzionarie occidentali.
Un mese dopo la rivoluzione iraniana, con l’appoggio dei principali paesi occidentali che sperano così di fermare una possibile avanzata del khomeinismo verso Ovest, Saddam Hussein assume il potere in Iraq, e nel settembre 1980 invade l’Iran. È l’inizio di una guerra sanguinosa che durerà fino al 1988 e farà oltre un milione di morti. La gerarchia iraniana risponde alla guerra accentuando i tratti autoritari del suo controllo sulla società e sullo Stato, ed eliminando (spesso fisicamente) i compagni di strada liberal-democratici e marxisti che si erano alleati ai khomeynisti per rovesciare il precedente regime.
In questo clima giunge a compimento un processo di reinvenzione della tradizione sciita in senso fondamentalista, che sarà esportato con successo fra gli sciiti libanesi, ma non in quello che è tradizionalmente il centro spirituale del mondo sciita, l’Irak. Qui anzi a partire dal 2003 una gerarchia libera dal bavaglio di Saddam potrà riproporre alla shi‘a internazionale una versione della dottrina che rifiuta il principio iraniano del “governo del giurista islamico”, secondo cui alla “Guida suprema” della Rivoluzione (ieri Khomeyni, oggi Khamenei), spetta un diritto di veto rispetto a qualunque decisione dei governi e dei presidenti della Repubblica usciti da elezioni che sono sì a suffragio universale ma da cui la “Guida” si riserva il diritto di escludere preventivamente i candidati non graditi.
Il sistema che prevede una continua dialettica fra autorità politiche e religiose non ha dato buoni risultati. Il successo alle ultime elezioni presidenziali dell’ex-sindaco di Teheran Ahmadinejad si deve al fatto che il nuovo presidente, per quanto estremista, non ha giocato la sua campagna sulla politica estera ma sull’economia, in un Paese che ha un tasso di disoccupazione record che spinge un numero impressionante di giovani verso la droga e la prostituzione. Le vaste contraddizioni di un modello che ha rinunciato a distinguere fra sfera della religione e sfera della ragione, fra sacro e profano, rimangono irrisolte.
Da qui, secondo i commenti che partono dall’Iran per arrivare all’islam in generale del cardinale Ratzinger nel suo dialogo con Habermas, un “primato di diritto” dell’Occidente, che – bene inteso – deve però diventare tentativo di coinvolgere una parte dell’islam in un’affermazione della “complementarietà tra ragione e fede”, che – a differenza del laicismo che rifiuta la fede e del fondamentalismo che rifiuta la ragione – può essere l’unica garanzia di un rispetto universale di quei “valori e norme essenziali” che forse l’espressione “diritti umani” non rappresenta più in modo adeguato. Discutere con Teheran significa allora porre all’islam, prima ancora della domanda sulla democrazia, il quesito fondamentale sul rapporto fra religione e ragione.
Stefano Balzani, Iran: religione, rivoluzione, democrazia, Elledici, 2004.