La condanna a morte di Gesù, pronunciata da Pilato nel Pretorio, è descritta dai primi due Vangeli sinottici con una frase molto sintetica: «Dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso» (Mt 27,26; Mc 15,15).
Nel Vangelo di Luca, invece, Pilato manifesta l’intenzione di sottoporre Gesù ad un severo castigo per poi liberarlo (Lc 23,22), ma sotto la pressione incalzante della folla abbandona Gesù «alla loro volontà» (Lc 23,25). Qui la flagellazione non viene espressamente nominata.
Da Matteo e Marco, dunque, si deduce che la flagellazione è stata il preludio della crocifissione, non una pena a sé stante, e l’intenzione descritta da Luca di un castigo come unica sentenza appare non aver avuto seguito.
Il resoconto di Giovanni, però, è molto più dettagliato e diventa ancora più interessante se lo si confronta con l’analisi medicolegale della Sindone. Il quarto evangelista descrive come Pilato, pur convinto dell’innocenza di Gesù (Gv 18,38), lo fa flagellare (Gv 19,1). A questo supplizio, i soldati aggiungono il dileggio della corona di spine, della porpora e degli schiaffi (Gv 19,2-3) che si sommano a quelli già ricevuti nel Sinedrio assieme alle bastonate.
Quando Gesù viene mostrato alla folla è evidente la speranza di Pilato che prevalga la pietà. Il governatore romano insiste ancora due volte nel proclamare l’innocenza del Galileo (Gv 19,4; 19,6); l’evangelista dice chiaramente che Pilato voleva liberare Gesù (Gv 19,12) ma dopo un ulteriore, vano tentativo cede e lo consegna per la crocifissione (Gv 19,16).
La flagellazione che descrive Giovanni, dunque, non era un preambolo alla crocifissione ma una punizione fine a se stessa che doveva essere seguita dalla liberazione. L’entità della pena in questo caso era diversa: infatti, per chi era destinato alla croce il numero di colpi doveva essere molto limitato per non debilitare troppo il condannato, in seguito costretto a sopportare altri oltraggi.
La condanna alla sola flagellazione, invece, comportava una completa libertà nel numero dei colpi, con la sola attenzione a non uccidere la vittima se la pena non doveva essere mortale.
L’osservazione della Sindone permette di ricostruire con notevole precisione le torture subite da Gesù e di confermare la doppia condanna descritta da Giovanni: prima ad una flagellazione abbondante, ma non mortale, e subito dopo alla crocifissione.
Sul viso sono presenti tracce di molteplici traumi, certamente dovuti non solo alle percosse ma anche alle cadute lungo il cammino verso il Calvario. Si nota la tumefazione della fronte, delle arcate sopracciliari e degli zigomi. Il setto nasale è schiacciato e deviato da un colpo di bastone, la cui traccia trasversale è ben visibile sotto lo zigomo destro. I capelli, i baffi e la barba sono intrisi di sangue.
Tutto il corpo è devastato da lesioni prodotte da un flagrum romano. La vittima non era un cittadino romano, altrimenti non sarebbe stato sottoposto a questo tipo di supplizio. Le ferite appaiono in numero molto superiore a quello previsto per coloro che avrebbero dovuto subire poi un’esecuzione capitale: infatti, si possono contare 120 frustate. Se ne deduce che, inizialmente, questa flagellazione è stata ordinata come una severa punizione a parte e denota un particolare accanimento dei carnefici.
I rivoli di sangue che bagnano tutto il capo e la fronte dell’Uomo della Sindone, con la diversa morfologia del sangue venoso e di quello arterioso, sono chiari segni di una coronazione di spine, fatto singolare e al di fuori della normale procedura. La corona non era un semplice serto attorno alla fronte ma un casco che ha causato almeno una cinquantina di ferite nel cuoio capelluto.
Altre ferite si notano a livello della scapola sinistra e sulla spalla destra: durante il cammino verso il luogo dell’esecuzione, il condannato ha trasportato il legno orizzontale della croce ed è caduto. Oltre ai traumi al volto, è evidente una ferita al ginocchio sinistro nella quale sono rimaste particelle di polvere. Anche sulla punta del naso si notano tracce di terriccio.
I polsi e i piedi sono stati trafitti da chiodi. Nei polsi, essi sono penetrati nello spazio di Destot, fra gli otto ossicini del carpo, provocando la lesione del nervo mediano. Come conseguenza, i pollici si sono ritratti verso l’interno della mano: infatti sulla Sindone non sono visibili. I piedi sono stati inchiodati insieme, sovrapposti, il sinistro sopra il destro, direttamente contro la croce, senza un suppedaneo. Questo dettaglio è interessante per confermare l’epoca in cui avvenne quest’esecuzione capitale: infatti, nel corso del primo secolo la crocifissione fu modificata per eseguirla all’interno dei circhi. I piedi erano poggiati su uno sgabello e si usavano le corde invece dei chiodi.
È inconsueta la trafittura al fianco prodotta dopo la morte del condannato, anziché prima per provocarla: questo fatto può interpretarsi come una prova di morte avvenuta. Un decesso più rapido del consueto che provoca anche la meraviglia di Pilato.
La Sindone mostra chiaramente la consegna quasi immediata del cadavere a coloro che si occuparono della sepoltura. La presenza del sangue prova il mancato lavaggio della salma, giustificabile solo nel contesto culturale giudaico durante il periodo precedente alla distruzione di Gerusalemme (70 d.C.). L’assenza di qualsiasi segno di decomposizione conferma il contatto del corpo con il telo solo per un breve periodo. Ore di silenzio nel buio del sepolcro, prima di uno straordinario Evento…
Orazio Petrosillo – Emanuela Marinelli, La Sindone, storia di un enigma, Rizzoli, 1998
Giulio Ricci, L’Uomo della Sindone è Gesù, diamo le prove, Ed. Carroccio, 1989.
Gino Zaninotto, The Shroud and Roman crucifixion: a historical review, in The Turin Shroud, past, present and future. International Scientific Symposium, Effatà Editrice, 2000.
Collegamento pro Sindone: www.sindone.info