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12.12.2024

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La speranza di “Zio Francesco”
7 Febbraio 2015

La speranza di “Zio Francesco”

La speranza di “Zio Francesco”

La grande testimonianza di fede del cardinale Van Thuan, tredici anni di carcere duro in Vietnam: veniva continuamente spostato perché la sua bontà conquistava i carcerieri. Citato due volte nell’enciclica di Benedetto XVI Spe Salvi, fu voluto da Giovanni Paolo II in Vaticano come “icona” della Dottrina sociale della Chiesa

Il suo nome era François-Xavier Nguyên Van Thuân, ma al Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, dove Giovanni Paolo II l’aveva voluto prima vicepresidente e poi presidente dal 1998, egli diceva così: «Mi chiamo Francesco Nguyên Van Thuân, ma in Tanzania o in Nigeria mi chiamano Uncle Francis, così è più semplice chiamarmi zio Francesco, o meglio solo Francesco». Era così, il cardinale Van Thuân, un cristiano dalle grandi doti di semplicità, mitezza e amabilità, ma anche dalle grandi visioni colme di speranza, che egli sapeva proporre: la diffusione della Dottrina sociale della Chiesa ai poveri del mondo, l’evangelizzazione dell’Asia, le attività di carità ed assistenza che egli promuoveva e sosteneva nei quattro punti cardinali.
Al Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace era arrivato subito dopo la sua liberazione, avvenuta nel 1988, dalle carceri comuniste vietnamite, come padre spirituale ad honorem dei testimoni cristiani che subiscono il martirio per la fede. Appena liberato, dopo tredici anni di carcere senza mai essere stato processato, una giornalista gli aveva chiesto: «È felice ora?». Ed egli rispose: «Ero felice anche prima!». Era per questo che il Papa lo volle subito alla Santa Sede. Egli era una icona incarnata degli obiettivi evangelici della Dottrina sociale della Chiesa. Ha dato testimonianza alla giustizia e alla pace, mostrando come esse non siano mai solo opera umana né frutto di meccanismi sociali e politici, ma siano una vocazione per l’uomo che ad esse è stato chiamato da Gesù Cristo, che è la Giustizia e la Pace. È dalla convivenza intima con Cristo nella sua Chiesa che il cardinale ha tratto la forza di essere un testimone di giustizia e di pace. Il cardinale Van Thuân ha mostrato l’unità delle tre virtù teologali nella vita del cristiano e, come presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, ha voluto che l’attività di quel Dicastero fosse orientata in modo tale da diffondere la Dottrina sociale della Chiesa nella sua vera natura di strumento di evangelizzazione suscitatore di testimoni, non solo di teorie ma anche e soprattutto di azioni e di vita cristiana dentro le strutture sociali.
Nel 1967, all’età di 39 anni, monsignor François- Xavier fu nominato vescovo di Nha Trang. Ricevette la consacrazione episcopale il 24 giugno. Otto anni dopo, mentre il Vietnam del Sud veniva invaso interamente dalle truppe comuniste, nell’aprile 1975, il Papa Paolo VI lo nominò Arcivescovo Coadiutore di Saigon. Dopo poche settimane, precisamente il 15 agosto 1975, solennità dell’Assunta, fu arrestato con l’accusa di aver complottato con il Vaticano e gli imperialisti. Aveva con sé solo la veste talare e la corona del rosario.
La sua prima prigionia fu a Nha Trang, la sua precedente diocesi. Durante questo primo periodo di prigionia scrisse i testi che poi furono pubblicati ne “Il cammino della speranza”. Li aveva scritti sul retro di pagine di calendario passatigli di nascosto da un bambino di sette anni. A Nha Trang rimase sette mesi. Fu quindi trasferito nel campo di Phu Khanh, dove rimase altri nove mesi in una cella stretta e senza finestre in completo isolamento.
Nella cella c’era solo una lampadina che penzolava dal soffitto. Egli dormiva su un’asse coperta di paglia. I carcerieri spegnevano all’improvviso la lampadina e lo lasciavano all’oscuro anche per giorni. Gli veniva passato il cibo da sotto la porta. La cella era caldissima, umida e nauseabonda per
la vicina latrina. Il prigioniero cercava di camminare avanti e indietro per non indebolirsi troppo e si chinava per respirare dalla fessura sotto la porta. Non aveva più fame né sete, non ricordava più nemmeno le preghiere, vomitava e soffriva di vertigini.
Il 29 novembre 1976 fu portato in un altro campo e poi imbarcato su una nave che condusse lui e altri 1500 prigionieri nel campo di Vinh Quang, nel Vietnam del Nord. Qui l’ambiente era meno duro, ma due mesi dopo fu nuovamente trasferito in un altro campo di prigionia alla periferia di Hanoi, dove fu obbligato a condividere la cella con un militare Vietcong che gli divenne amico, attratto dalla sua bontà.
Dopo essere stato agli arresti domiciliari presso la canonica del villaggio di Giang Xa, presso Hanoi, le autorità decisero di segregarlo di nuovo in una cella, in una zona militare dove visse per sei anni, costretto spesso a dormire in stanze diverse della struttura. Poiché la sua bontà conquistava
i carcerieri, fu trasferito nuovamente in una prigione di massima sicurezza e segregato in una cella. La liberazione avvenne il 21 novembre 1988, dopo tredici anni, nove dei quali passati in isolamento duro. Nelle carceri vietnamite, ove fu via via rinchiuso, il giovane vescovo soffrì molto, nel corpo e nello spirito. All’inizio soprattutto per la separazione dal suo popolo. La fede lo tenne però sempre unito alla Chiesa e al Santo Padre. Lui stesso ha raccontato nei suoi libri, e anche in qualche video tuttora a disposizione, di come avesse conservato per anni due pagine de L’Osservatore Romano che fortunosamente gli era stato fatto avere – le due pagine incartavano due pesci che una signora gli aveva donato – e come le avesse lette e rilette mille volte come strumento di comunione, oltre che nella preghiera, con il Santo Padre. Durante i lunghi anni dell’isolamento fu spesso sull’orlo del crollo della mente e del cuore.
Ma ciò non avvenne mai. Aveva insegnato ad uno dei suoi carcerieri il canto del Veni Creator. Questo carceriere comunista era stato colpito dalla melodia del canto anche se non ne comprendeva il significato. Però, intanto – ha poi raccontato il cardinale – lo cantava. Lo cantava anche quando egli, il futuro cardinale, aveva l’animo pesante e, sentendo quel canto, in lui rinasceva la speranza. Fu così che anche un carceriere comunista divenne strumento della speranza cristiana.
Nel 1987, durante l’isolamento nel carcere di Hanoi, l’allora vescovo Van Thuân riuscì ad ottenere dai carcerieri dei fogli di carta su cui scrivere di nascosto delle preghiere di speranza. Le guardie erano all’inizio sospettose e negative nei suoi confronti, ma furono conquistate dall’amore che egli testimoniava.
Furono le guardie stesse a consigliargli di scrivere le preghiere in lingua straniera – egli scelse l’italiano – e di avvolgerle in una copertina di carta di giornale con sopra scritto: Studio di lingua straniera. Avrebbero potuto così superare i controlli.
Con questo stratagemma egli poté farle uscire dal carcere e noi oggi possiamo leggerle. Chi è strumento del male può diventare strumento di bene. Niente è come è, ma tutto può essere trasformato. Era riuscito ad avere una bottiglietta di vino che era passata ai controlli con la scritta “Medicina per il mal di stomaco”. Celebrava la messa di nascosto, mettendo sul palmo della mano due gocce di vino, una d’acqua e qualche briciola di pane. Conservava l’Eucarestia nei pacchetti di sigarette. Celebrava sempre alle 15 del pomeriggio, nell’ora della morte del Signore. Poi, sempre di nascosto, passava le Sacre Specie agli altri suoi compagni di carcere che volevano comunicarsi. Riuscì così a formare delle piccole comunità cristiane che celebravano l’eucarestia e vegliavano la notte per adorare il Santissimo Sacramento conservato nei pacchetti di sigarette. Era riuscito anche a costruirsi una croce con il filo di ferro, croce che poi portò sempre anche da cardinale e che gli ricordava le esperienze passate e l’aiuto ricevuto da Dio.
Il cardinale Van Thuân era nato il 17 aprile 1928 a Huê, la capitale del Viet Nam imperiale.
La sua famiglia era di alto lignaggio, aveva sofferto molte persecuzioni per la fede e continuò a soffrirle dopo l’avvento dei comunisti. L’educazione cristiana della mamma Elisabeth fu fondamentale e lo condusse ben presto a scegliere altri maestri: santa Teresa di Lisieux, san Giovanni Maria Vianney e san Francesco Saverio, da cui prese il nome. È da loro che egli imparò l’umiltà, l’affidamento alla preghiera, la fortezza davanti alle difficoltà.
Durante la sua presidenza del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace – ancora oggi, sia detto di sfuggita, gli officiali del dicastero ricordano le sue amabili imitazioni mimiche – si adoperò molto per la diffusione della Dottrina sociale della Chiesa tra i giovani e nelle periferie del mondo. Si entusiasmò per il progetto del Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, al punto di comunicarne l’uscita con qualche anno di anticipo.
Sappiamo, dalla testimonianza dell’arcivescovo Giampaolo Crepaldi, che fu a lungo suo collaboratore e amico in quanto segretario dello stesso Pontificio Consiglio, che, una volta ammalatosi di cancro allo stomaco – notizia che lo raggiunse proprio in contemporanea con l’elezione cardinalizia avvenuta il 21 febbraio 2001 – egli dedicò le sue sofferenze proprio al Compendio e al messaggio di speranza che esso conteneva.
Nell’anno santo del Duemila il papa Giovanni Paolo II volle che fosse lui a tenere gli esercizi spirituali per il Santo Padre e la Curia. Il cardinale Ratzinger lo visitava quotidianamente nella sua malattia e ne parla per due volte nell’enciclica Spe Salvi, dedicata alla speranza. E della speranza cristiana il cardinale Van Thuân è stato araldo. Lo testimoniano tuttora le tante persone che sono devote alla sua memoria e i pensieri e le preghiere contenuti nei suoi libri.
Preghiamo per il cardinale, di cui è in atto la causa di beatificazione. â–

 
Il Timone – Febbraio 2015

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