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12.12.2024

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La speranza oltre la morte

La speranza oltre la morte



 

 

Spesso l’arrivo di una grave malattia o la morte di chi ci è caro ci pongono davanti a una realtà che vorremmo rifiutare con tutte le nostre forze. ma può essere un’occasione per affrontare e approfondire, insieme al mistero della vita, quello della nostra fede.

 

 
Sappiamo bene come nella vita di ciascuno di noi siano presenti gioie e dolori e come questi ultimi siano faticosi da affrontare. Tra di essi, io stessa ho sperimentato come particolarmente pesante e impegnativo, nonostante la fede, quello di accompagnare dei familiari o degli amici colpiti da una grave malattia per tutto il decorso, fino alle soglie della morte. Il compito di-venta ancor più gravoso se si tratta di una persona ancor giovane che si aspetta – com’è naturale – ancora molti anni di esistenza e che invece sente, ogni giorno sempre più, sfuggirle la vita. È una situazione difficile perché ci troviamo, spesso all’improvviso, a dover gestire non solo il dolore e l’angoscia di chi ci sta vicino ma anche la nostra sofferenza e la nostra paura di non farcela a condividere il peso, di non essere all’altezza di una situazione così complicata. È dunque comprensibile che, in una società come quella in cui viviamo, così pervasa da un esasperato efficientismo, che ricerca bellezza e salute come idoli ai quali sacrificare molte cose, che si illude di poter raggiungere una sorta di immortalità attraverso la scienza e la tecnica, siamo sempre più spesso tentati di nascondere e di nasconderci la morte. E che, di conseguenza, cerchiamo di ignorarla, a tutti i costi e con grande angoscia, anche quando essa ci è vicina e bussa ormai con insistenza alla nostra porta.
Ma la verità prima o poi riesce a farsi strada. Così, ciò che si tentava di far uscire da una finestra è finito per rientrare – e alla grande – dalla porta. Ce lo dimostra il dibattito in corso sulla eutanasia. Lo scontro, anche aspro, sta tuttavia chiarendo sempre più e meglio le differenze che intercorrono tra la vera e propria ricerca volontaria della morte – un suicidio, in pratica – e, invece, la possibilità di non accedere obbligatoriamente a interventi sanitari che la tecnica rende possibili ma che ormai assumono spesso l’aspetto di un crudele accanimento terapeutico.
Così, volente o nolente, ognuno di noi, che sia o no coinvolto attualmente e direttamente nel problema morte, si trova costretto a fare i conti con questa realtà che, volutamente accantonata per anni, si sta ora imponendo con forza alla ribalta di tutta la pubblica opinione. La fede certamente aiuta noi credenti ad orientarci in questo campo ma non è certamente inutile conoscere alcune cose.
La prima di queste è che coloro che lavorano con i malati terminali testimoniano che ciò che ad essi fa paura fino ad indurli a chiedere la “dolce morte” non è tanto la malattia in sé quanto la sofferenza fisica e, forse ancora più, la solitudine e l’isolamento che temono li circonderà quando non saranno più né amabili né desiderabili agli occhi del mondo e persino dei propri cari. Oppure, e si tratta di una paura an-cor più sottile, il timore di essere un peso eccessivo per chi li assiste ed è con loro coinvolto emotivamente. Mentre, invece, se aiutati in modo corretto dalla medicina attuale che riesce a contenere il dolore, e se assistiti e circondati da una rete di rapporti amorevoli, essi riescono a trovare la serenità sufficiente per vivere e apprezzare, nonostante tutto, fino in fondo la loro vita.
Tutto questo evidenzia come il problema vero non sia rappresentato solo dal malato (il quale, se amato nel modo giusto, continua ad amare anche la sua vita, seppur limitata e ridotta), quanto da noi sani che lo circondiamo e che, travolti dall’angoscia e dalla sofferenza che indirettamente ci è piombata addosso, non sappiamo affrontare con sufficiente affetto e speranza questa situazione.
Il secondo aspetto, messo in evidenza da gruppi di psicologi che si sono a lungo occupati del problema – e tra loro, in particolare, da Elisabeth Kuebler-Ross – è che, posti davanti ad una progressiva coscienza della gravità della propria malattia e di come essa possa portare alla morte, i malati, pur vivendo ovvi momenti di crisi, finiscano tuttavia, attraverso una serie di passaggi interiori, per adattarsi poco a poco alla situazione. Accettandola, infine, con serenità. A un patto, tuttavia: che coloro che li circondano, familiari ed amici, non vogliano “trattenerli” ad ogni costo o che non costruiscano attorno ad essi castelli di pietose bugie che, allontanando gli infermi dalla verità e dalla realtà, impediscono loro di compiere quella evoluzione interiore che è necessaria per smorzare l’angoscia e per avviarsi con dolcezza, quasi con naturalezza, verso quella tappa della vita che è la morte, riuscendo infine a percepirla quale essa davvero è: non fine di tutto, ma misterioso passaggio verso altre dimensioni di esistenza.
Mi pare che in questo caso la psicologia non faccia altro che confermare quanto noi credenti già dovremmo sapere ma che, certamente, circondati come siamo da una cultura che ci propone modelli diversi, stentiamo a vivere. Per questo potrà esserci utile ricordare i nostri punti di riferimento.
Noi, cristiani, noi che crediamo in un Dio che tiene in tanto conto la nostra vita da essersi fatto Egli stesso uomo, noi suoi seguaci, sappiamo che questo istinto che ci porta ad amare la nostra esistenza e a desiderare di viverla al meglio e di prolungarla al massimo è giusto e buono. Però, sappiamo anche che essa non è l’unica che ci è data perché ci attende un’altra vita, questa volta eterna, questa volta senza malattie e sofferenza, questa volta piena di amore in Dio con i fratelli. Quando siamo presi dai mille impegni di ogni giorno, coinvolti se non travolti dal quotidiano, quando tutto in noi e attorno a noi va abbastanza bene, è facile dimenticarcene. Per questo l’arrivo di una malattia grave nostra o di chi ci è caro è a volte un terribile campanello che ci risveglia all’improvviso e ci pone davanti a una realtà che non desideriamo e che vorremmo rifiutare con tutte le nostre forze. Ma è anche un’occasione che ci viene data perché ci decidiamo ad affrontare e approfondire, insieme al mistero della vita, quello della nostra fede. Una prova importante, quella suprema, in cui noi stessi dobbiamo, passo dopo passo, imparare a prepararci al “grande transito”, oppure a vivere amorevolmente accanto a chi ci è caro e deve inoltrarsi verso il Mistero.
Non occorrono, in fondo, molte cose. Basta l’essenziale, che consiste in un semplice, continuo e totale abbandono in Dio. Al quale va chiesta anche la guarigione fisica, perché di miracoli sono pieni il Vangelo e la storia della Chiesa. Ma, insieme, l’aiuto e la forza necessari per affrontare il nostro personale Calvario o quello dei nostri cari con la fede, l’amore e la dignità con cui Gesù stesso e sua Madre lo hanno fatto. Un pregare, il nostro, perché ci venga donata una speranza sempre più grande nell’altra vita che attende noi e i nostri familiari e amici e, dunque, affinché il nostro orizzonte spirituale si allarghi sempre più. Un chiedere con costanza il coraggio di saper assistere chi ci è vicino e ha bisogno di noi, non solo con cure amorevoli per il corpo, ma anche con quell’amore autentico che sa comunicare con l’anima di chi sta per avvicinarsi alla fine. Perché non si tratta, ovviamente, di forzare la coscienza di nessuno. Ma solo di cercare di accogliere l’angoscia e la speranza di chi sta per andarsene, facendogli intravedere con dolcezza e pazienza che non tutto finisce qui, che ciò che lo attende non è il nulla ma, al contrario, la pienezza della vita.
Dio non si impone mai, si propone soltanto. E se noi ci renderemo almeno un poco disponibili, il suo Spirito farà il resto. Se crederemo davvero in Lui e gli affideremo noi stessi e i nostri cari malati non mancheremo di fare l’esperienza di come il suo amore sappia raggiungere e consolare anche i cuori apparentemente più duri e disperati.

 
 
 
 
 
 
 
RICORDA
 
«In conseguenza dell’opera salvifica di Cristo l’uomo esiste sulla terra con la speranza della vita e della santità eterne. E anche se la vittoria sul peccato e sulla morte, riportata da Cristo con la sua croce e risurrezione, non abolisce le sofferenze temporali dalla vita umana, né libera dalla sofferenza l’intera dimensione storica dell’esistenza umana, tuttavia su tutta questa dimensione e su ogni sofferenza essa getta una luce nuova, che è la luce della salvezza. È questa la luce del Vangelo, cioè della Buona Novella».
(Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Salvifici doloris, n. 15).

 
 
 
 
 
 
N. 57 – ANNO VIII – Novembre 2006 – pag. 56 – 57

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