La mitezza si fonda sull’umiltà. Consiste nel tenere a bada il male presente in ognuno di noi. Ma anche nel saper accettare nel modo giusto quello che gli altri ci possono arrecare
«Beati i miti perché erediteranno la terra». È l’ultima beatitudine di quella che viene chiamata la trilogia della “purificazione” ed è presente solo in Matteo (5,5).
Così il quadro si va delineando sempre meglio. Abbiamo infatti già visto come per trovare quella gioia che Gesù promette – e che costituisce appunto la nostra “beatitudine” – occorra anzitutto diventare “poveri nello spirito”. Sia necessario, cioè, giungere a scoprire come una delle mete più importanti della nostra vita sia quella di imparare a distaccarci sempre più da ogni attaccamento terreno per farci, prima di ogni altra cosa, cercatori del “Regno” di Dio. A quel punto, tutto il resto di cui abbiamo bisogno ci verrà donato “in sovrappiù”.
Allo stesso tempo, però, sarà necessario intraprendere un altro processo molto importante: quello di smontare un po’ alla volta, una per una, quelle tante illusioni, quelle mille idolatrie che confondono la nostra ragione, intasano il nostro cuore e ingannano il nostro spirito. Potarle una ad una fino a farci “afflitti”, cioè fino a renderci capaci di cogliere, magari anche attraverso le lacrime, quale sia il limite umano e quanto grande sia la fatica del vivere che da esso per ognuno di noi ne discende. E, dunque, di conseguenza, di riconoscere quanto sia grande il bisogno di Dio e del suo abbraccio che ci illumina, ci consola, ci sostiene.
Occorre infine, come vedremo ora, scoprire il valore di quella “mitezza” che ci consentirà addirittura di “ereditare la terra”. Cioè di diventare edotti di quelle dinamiche profonde che reggono il mondo terreno – ma anche quello eterno – non in virtù di una forza che attinga alla violenza e alla sopraffazione ma che, al contrario, prenda vita dalla mitezza, cioè dall’amore. Sarà sempre Matteo, solo qualche capitolo più avanti (11,29), a farci capire meglio quale sia la base di questa terza beatitudine. Gesù ha appena finito di ringraziare il Padre per una cosa che a noi ormai può apparire scontata, tante volte ormai l’abbiamo sentita ripetere, ma che in realtà è stupefacente: quella cioè di rivelare i segreti del Regno non ai sapienti e agli intelligenti, a coloro cioè che a viste umane potrebbero sembrare i più attrezzati per capire. Ma al contrario di svelare i suoi misteri a coloro che appaiono piccoli, insignificanti, senza alcuna importanza agli occhi del mondo. Agli “ultimi”, verrebbe da dire se il termine non fosse un po’ troppo abusato.
Se le cose stanno così, allora essere “piccoli” è un dono, un privilegio. Ma come ottenerlo? Gesù lo spiega subito dopo e in modo molto chiaro: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».
Mitezza e umiltà dunque sono strettamente legate tra loro. Anzi forse sarebbe ancor meglio dire che la mitezza è il frutto maturo della umiltà, mentre quest’ultima è l’atteggiamento di base necessario per raggiungere la prima. Umiltà intesa nel suo senso più vero, cioè come capacità continua di mettersi in discussione guardandosi con verità e sincerità fin dentro al cuore per scoprirvi tutto quel negativo di cui Gesù parla: «I propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie» (Mt 15,19). Tutto un campionario spaventoso che riguarda tutti, nessuno escluso. Pensare di essere esenti dalla possibilità di commettere uno di questi peccati sarebbe infatti il più pericoloso e grave peccato di superbia.
Chiarito dunque che l’umiltà è la base sulla quale costruire, ecco illuminarsi meglio che cos’è la vera mitezza.
È certamente e anzitutto essere consapevoli di tutto quel bagaglio negativo di cui abbiamo parlato e imparare a tenerlo a bada. Imparare cioè ad agire in modo da evitare di farsi del male e insieme di arrecarlo ai fratelli. In forme che non escludono solo le manifestazioni di danno morale e materiale più macroscopiche ed evidenti, come per esempio gli omicidi, i tradimenti, gli inganni. Ma anche diventando sempre più sensibili alle sfumature, perché si può essere adulteri o ladri o tante altre cose ancora, anche solo nel pensiero. Diventare miti significa dunque e prima di tutto lasciarci sempre più profondamente, nel corso della nostra vita, conquistare e plasmare dall’amore. Da quell’amore che è la vera gabbia in cui rinchiudere la nostra spontanea violenza, il nostro naturale egoismo che tutto vuole, il nostro desiderio di vincere e prevalere. Porcelo come meta, questo amore, nella convinzione profonda che la vera forza che può cambiare anzitutto la nostra vita e poi anche il mondo non è quella che si basa sulla prepotenza, sulla sopraffazione, sulla violenza.
E che ciò non significhi essere degli ingenui sprovveduti ce lo insegna sempre Gesù: è infatti la sua mitezza, la sua obbedienza fino alla morte in croce, quella che lo ha reso agnello sacrificale, salvatore e redentore. E questo perché la mitezza, e l’amore che essa inevitabilmente sottintende, è in grado di ottenere un effetto sorprendente: quello di lasciare spazio all’intervento divino nelle nostre azioni umane. Perché è proprio la mitezza che consente di non interrompere quel rapporto, quel canale di grazia, attraverso il quale Dio – che rispetta pienamente la nostra libertà e dunque interviene solo se noi lo vogliamo – possa agire al meglio con la sua forza che, a differenza della nostra è ricca di giustizia, ma anche di misericordia.
Una mitezza, una umiltà che non devono conoscere ostacoli e che proprio per questo devono giungere fino ad amare anche i nemici. Essere miti, dunque, significa non solo tenere a bada il male che può partire da noi, ma anche saper accettare nel modo giusto quello che gli altri ci possono arrecare: «Avete inteso che fu detto Occhio per occhio, dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica tu lascia anche il mantello» (Mt 5,38-40).
Non opporci al malvagio. Cioè saper guardare in faccia il male, renderci conto che è tale, chiamarlo con il suo nome cioè non nasconderlo, non essere “buonisti” a tutti i costi. Allo stesso tempo, tuttavia, occorre sapere non raccoglierlo, non rilanciarlo. Trovare, al contrario e in ogni circostanza, il modo per sgretolarlo, scioglierlo, renderlo innocuo avvolgendolo con il nostro amore. Solo così non coinvolgerà anche noi in una catena che rischia di essere senza fine.
È un impegno troppo grande, troppo alto? Sì, senza l’aiuto di Dio. Ma se anche solo tenteremo di intraprendere la via della vera mitezza, così come le Beatitudini ci invitano a fare, sarà l’esperienza stessa con i suoi esiti a dimostrarci che ancora una volta il Vangelo ha ragione.
Ricorda
«Anche quando ci può essere la necessità di uno sfogo, in certe ore di solitudine e di abbandono, il silenzio e la mitezza sono temperamenti che rendono più fruttuoso il patire qualche cosa per amore di Gesù».
(San Giovanni XXIII).
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