La quaresima e l’arte delle icone mostrano che la vera bellezza è quella interiore, che proviene dall’amore e che non v’è gioia piena senza sacrificio. Cristo lo ha testimoniato con la sua Passione.
Nel 2002, l’attuale Pontefice tenne al Meeting di Rimini un incontro dal titolo Il sentimento delle cose, la contemplazione della bellezza e mise l’accento su un aspetto che può aiutarci a capire il mistero della Quaresima.
Il salmo 44 letto nei Vespri il lunedì del tempo di Quaresima dice di Cristo «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia»; il mercoledì tuttavia il salmo è letto alla luce di Isaia 53,2 che profetizza di Cristo: «Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore». Insomma l’apparente mancanza di bellezza di Cristo dovuta al dolore è in realtà la più fulgida bellezza: «Sei il più bello tra i figli degli uomini». Come possono intrecciarsi i due aspetti del dolore e della Bellezza visti, nel nostro periodo storico, come scissi e assolutamente inavvicinabili tra loro? Il dolore spesso confonde o scandalizza, e la bellezza viene concepita solo nei suoi aspetti esteriori. Ci mette sull’avviso il Cardinal Ratzinger sottolineando l’ambiguità della bellezza che non conduce alla Verità [a Dio] ma porta a una soddisfazione puramente esteriore e pertanto provvisoria: è la mendace bellezza delle pubblicità e delle gioie effimere che, una volta sperimentate, lasciano il cuore vuoto.
La Bellezza che appaga è dunque inscindibile dalla Verità; ne è consapevole il pensiero degli scrittori alla continua ricerca di risposte cruciali: Dostoevskij dice: «soltanto la bellezza è indispensabile, perché senza bellezza non ci sarà più niente da fare in questo mondo»; e Gogol’ così si esprime: «se l’arte non compie il miracolo di trasformare l’anima dello spettatore, non è che una passione passeggera». Non è dunque tutto oro ciò che luccica: Eva vide che il frutto dell’albero era buono da mangiare e gradito agli occhi, ma esso l’ha condotta lontano dal Bene.
Dostoevskij si chiede «quale bellezza salverà il mondo?», come facendo eco a un interrogativo comune all’uomo di tutti i tempi alla ricerca continua della vera Bellezza e della Verità. È ritornando al Vangelo che leggiamo la risposta alla domanda dello scrittore russo. Cristo si presenta come il pastore buono e in greco c’è un termine ??????????? che indica l’identità di ciò che è buono e di ciò che è bello; anche il termine ebraico tôb vuol dire sia buono sia bello. Cristo è l’uomo per il quale Pietro disse durante la Trasfigurazione «è bello per noi stare qui»; egli è anche il pastore buono che «dà la vita per le sue pecore» (Gv 10,11). Colui che è Bellezza si è lasciato, per bontà, colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine. La salvezza, la gioia e la Resurrezione passano dalla Croce, non ci può dunque essere vera Settimana santa senza la Croce. Ora, anche la vita dell’uomo è segnata da momenti di sofferenza o giornate di difficoltà, come dunque è possibile vivere il dolore nella gioia?
Ci vengono in aiuto le icone russe che uniscono come elementi inscindibili questi due aspetti: «i motivi lieti e quelli dolorosi, ascetici sono ugualmente indispensabili» (Studio sulle icone, p. 19).
Nelle icone la vivacità e la giocosità dei colori si associano con il dolore e la profondità della rappresentazione. L’arciprete russo Avvakum, vissuto nel XVII secolo, diceva che le icone «il viso e le mani e tutti i sensi rappresentavano affilati i corpi macerati nei digiuni e nelle fatiche e in ogni sorta di afflizioni». Il linguaggio simbolico delle icone, dicono unanimi gli iconografi e i teologi, è incomprensibile per la carne sazia e inaccessibile al cuore gonfio di sogni di benessere, ma diventa vita quando queste fantasie si infrangono e l’abisso si spalanca sotto i piedi, cioè quando l’uomo vive momenti di sofferenza.
Prendiamo, ad esempio, la famosa icona della Trinità di Rublev [cfr. figura] che mostra il Gran Sacerdote che offre il Sacrificio, (simbolizzato dal calice sull’altare della Trinità), perché Dio ha talmente amato il mondo, che ha dato il suo unico Figlio. Come si vede, nell’icona si associano bellezza e sacrificio, vivacità dei colori e profondo significato: «Il Padre è l’Amore che crocifigge, il figlio è l’Amore crocifisso, lo Spirito Santo è la potenza invincibile della Croce» (Teologia della bellezza, p. 287).
Così, nell’icona della Crocifissione (cfr. figura) il colore pallido del corpo mette in rilievo la Croce scura della passione. La Croce è saldamente piantata in terra, mentre il corpo sospeso forma una curva che lo spoglia del peso e si avvicina alla Vergine alla destra della croce. La mano della Vergine indica la Croce. La Croce non è il patibolo ma è l’albero di vita piantato sul Calvario, una parte è piantata nella Terra al fine di riunire le cose che sono sulla terra e negli inferi alle cose celesti. Il Cristo, rappresentato morto (dopo secoli in cui era rappresentato vivo), ha la testa reclinata e il corpo piegato. Il corpo è nudo, salvo un panno che copre le anche e che esalta la bellezza delle linee. Il Crocefisso morto e rilassato non ha perduto nulla della sua regale nobiltà e conserva sempre la sua maestà: «Io lo vedo crocefisso e lo chiamo Re» (S. Giovanni Crisostomo, De cruce et latrone homilia, II, p. 42).
L’icona di Cristo crocifisso, sosteneva l’attuale Pontefice al Meeting, ci libera dall’inganno della menzogna e pone come condizione per conseguire la gioia che noi ci lasciamo ferire con lui e crediamo all’Amore. Per questo le nostre lacrime hanno nuovo valore, esse non sono perse perché Dio le fa sue ed è così che diventa possibile vivere il dolore nella gioia.
Come potrebbe l’uomo comprendere che Dio è Amore, che Egli è l’amore stesso, se non guardando al Cristo incarnato, morto e risorto? L’Amore, Cristo, prende su di sé il peccato del mondo per perdonare ogni singolo peccatore: «il Padre mi ama perché io offro la mia vita […]. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso […]. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,17-18). Per questo in alcune icone russe il Cristo, uomo del dolore, assume su di sé tutta la sofferenza umana e la trasfigura dandole nuovo valore.
La vera Bellezza è l’amore crocefisso, che è rivelazione del cuore divino che ama. Il cardinale Carlo Maria Martini, nella lettera pastorale del 1999-2000, dal titolo Quale bellezza salverà il mondo?, ha scritto: «la bellezza del Pastore sta nell’amore con cui consegna se stesso alla morte per ciascuna delle sue pecore e stabilisce con ognuna di esse una relazione diretta e personale di intensissimo amore». E il cardinale indica che l’annuncio della Parola di Dio è la normale conseguenza dell’urto del cuore umano di fronte alla vera Bellezza. Ecco dunque chiudersi come un cerchio il filo che abbiamo dipanato: il pastore dà la vita per le sue pecore e chiede a ciascuno il sacrificio gioioso della propria vita, nelle comuni circostanze della vita, per aiutarlo a portare la croce in modo da attingere alla vera bellezza: così il dolore che scaturisce dall’amore si trasforma in gioia e bellezza piena.
BIBLIOGRAFIA
Joseph Ratzinger, Il sentimento delle cose, la contemplazione della bellezza, Messaggio al Meeting di Rimini 2002.
Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 1999.
Pavel Florenskij, Le porte regali, saggio sull’icona, Adelphi, 1997.
Pàvel Nikolàjevic Evdokìmov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, Paoline, 1984
Carlo Maria Martini, Quale bellezza salverà il mondo? Lettera pastorale 1999-2000, Centro Ambrosiano, 1999.
IL TIMONE – N. 51 – ANNO VIII – Marzo 2006 – pag. 52 – 53